Da una parte della strada gridano «Navalny, Navalny, Navalny!», ma nessuno a questo punto è più capace di rispondere. La cassa con il corpo dell’ultimo oppositore politico morto in Russia al tempo di Vladimir Putin è già arrivata al cimitero Borisovskij assieme ai genitori, Lijudmila e Anataloij: due russi comuni, i cappotti sbottonati all’inizio di marzo, trattenendo le lacrime.

La vedova, Yulia, e il figlio, Zakhar, sono rimasti per forza a Berlino. L’altra figlia, Daria, è negli Stati uniti. Il gruppo di collaboratori che ha seguito per anni il più tenace critico del Cremlino ha scelto da tempo di vivere all’estero. Così quel grido si perde fra i palazzi di Maryno, distretto dormitorio lontano quaranta minuti dal centro di Mosca, il luogo in cui alcune migliaia di persone hanno preso parte ieri pomeriggio alla cerimonia religiosa. Sembra impossibile che qualcuno possa raccoglierlo. Dopo i palazzi, a Maryno, si vede soltanto la campagna.

IN TEORIA questo funerale non doveva esserci. A Salekhard, nell’estremo nord della Russia, funzionari particolarmente ligi hanno trattenuto le spoglie di Navalny per una decina di giorni prima di consegnarla ai familiari. Dicevano di attendere i risultati degli esami e le decisioni di un giudice del posto. Quando si sono decisi a procedere mancavano gli uni e le altre. Da quel momento è cominciata la ricerca di una sala in cui celebrare le esequie. A Mosca non hanno trovato nulla. Persino i carri funebri erano occupati. Come dire: per la cerchia del potere russo Navalny è stato un problema da morto quanto lo era da vivo. Avevano il timore di proteste clamorose a poche settimane dal voto con cui Putin otterrà il quinto mandato al Cremlino. Per questo attorno alla chiesetta di Maryno già dalla mattina le forze dell’ordine hanno steso camionette, lunghe file di transenne, anche i metal detector. Tutto praticamente inutile. Il momento di massima tensione per le autorità dev’essere stato l’arrivo di un gruppo di diplomatici occidentali: fra loro Pietro Sferra Carini, l’incaricato d’affari all’ambasciata italiana.

IL RITO È COMINCIATO alle due del pomeriggio. Nel tempio sono entrati soltanto i parenti più stretti. La bara è rimasta aperta per l’intera funzione. Sul capo di Navalny hanno messo un nastro di stoffa con immagini di santi. Si chiama venchik. Rappresenta una corona, e quindi la gloria a cui il defunto avrà diritto per avere vissuto in modo giusto sulla Terra.

Non è chiaro quanti russi siano arrivati a Maryno per l’estremo saluto. Pochi, duemila, forse tremila, cinquemila al massimo, comunque una frazione rispetto al numero di quelli che hanno sostenuto le sue battaglie politiche. Molti erano giovani. Hanno aspettato la fine della funzione reggendo fra le mani fiori e candele, poi si sono mossi verso il cimitero, che è distante un paio di chilometri. Per arrivare bisogna attraversa una strada, superare un ponticello, tagliare per un parco ancora coperto di neve. Lungo l’intero percorso decine e decine di agenti in assetto antisommossa. Eppure molti hanno scandito slogan contro l’invasione in Ucraina. Tanti hanno chiesto a gran voce di riportare a casa i soldati.

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AI RAMI di un albero un paio di ragazzi hanno appeso uno striscione che diceva: «Putin lo ha ucciso, ma non lo ha piegato». Almeno cinquanta di questi cittadini, secondo fonti indipendenti, sono stati trascinati via dai poliziotti. Ultime tracce di opposizione lasciate da singoli individui sempre più deboli e sempre più soli di fronte al Cremlino. Quanti nomi oltre quello di Navalny ha scandito questa gente nel corso degli ultimi anni? Boris Nemtsov è stato ucciso a colpi di pistola in un agguato nel 2015 in pieno centro a Mosca. Ilija Yashin del partito Parnas è in carcere per avere diffuso informazioni ritenute false sulla guerra. La stessa sorte è toccata all’attivista Vladimir Kara-Murza e al politico di sinistra Sergeij Udaltsov. Dall’inizio dell’anno la pressione del governo sulla società civile si è fatta ancora più forte. La scorsa settimana un tribunale ha condannato a due anni e mezzo di prigione il premio Nobel per la Pace Oleg Orlov. Anche il direttore di Novaja Gazeta, Sergeij Sokolov, è stato trattenuto di recente dalla polizia per il modo in cui il suo giornale sta trattando la guerra.

NAVALNY per decine di migliaia di suoi connazionali è stato una speranza. A volte sembrava uscito da un film degli anni Novanta: era testardo, astuto, scanzonato, aveva una vitalità tipicamente russa, simile per certi versi a quella con cui Boris Eltsin si era fatto conoscere dentro e fuori dai confini del paese nei primi anni Novanta. Ieri, all’imbrunire, al cimitero Borisovskij, ha voluto che suonasse la colonna sonora del film Terminator.