L’esilio linguistico di Pavel Arsen’ev, poeta di un surreale «ready-written»
Poeti russi «Russo lingua non materna», da Seri Editore
Poeti russi «Russo lingua non materna», da Seri Editore
Destinato a interrompere gli automatismi della percezione abituale della realtà e a trasmettere al lettore una sensazione di irrimediabile spaesamento, il linguaggio poetico – scrive Viktor Šklovskij in Teoria della prosa, è sempre e comunque «una lingua straniera». Proprio al teorico formalista si ricollega – grazie al suo retroterra di studioso dell’avanguardia sovietica degli anni Venti – Pavel Arsen’ev per tratteggiare quella strategia di ripensamento della parola poetica che, a suo dire, appare oggi come l’unica strada percorribile per resistere al drammatico «crac della valuta linguistica russa sul mercato internazionale» , in seguito all’invasione dell’Ucraina.
Più sorprendente (e ammirevole) è la radicalità con cui il poeta pietroburghese (che ora vive a Marsiglia) pratica la sua politica di auto-distanziamento dal contesto linguistico in cui è stato «gettato» alla nascita.
In Russo lingua non materna (traduzione di Cecilia Martino e Marco Sabbatini, Seri editore, pp. 183, € 15,00) Arsen’ev rilegge la sua biografia artistica ponendola interamente sotto il segno dello straniamento. Più che una conseguenza del distacco fisico dal paese d’origine (che l’autore ritiene ormai definitivo) la riconcettualizzazione del russo come lingua «non madre» è una postura intellettuale radicata in una miriade di dettagli esistenziali che, retrospettivamente, si tingono di una sorta di ironica fatalità.
Arsen’ev fa risalire le origini del proprio esilio linguistico a una bizzarra dicitura che campeggia sul suo diploma di laurea, dove lo si diceva specializzato in «russo lingua non materna», ovvero abilitato a insegnare a studenti che, originari di una delle tante repubbliche ex sovietiche, possedevano già una conoscenza di base del russo, pur non essendone parlanti nativi. Le illogiche formulazioni della burocrazia trasformavano dunque Arsen’ev, allora ventiduenne, in esperto di una paradossale variante non materna della propria madrelingua. Ancora più significativo, ai fini della sua successiva auto-mitopoiesi, è il fatto che una simile qualifica (peraltro da lui mai sfruttata professionalmente) fosse stata conseguita a Pietroburgo presso l’università pedagogica intitolata ad Aleksandr Herzen, scrittore-rivoluzionario che, come commenta l’autore nella prefazione, «anche quando si trovava ormai in Europa, non smise mai di intrattenere rapporti interessanti con la lingua russa, materna-non più materna».
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Svetlana Aleksivic, il riscatto delle guerriereProprio sulle orme di Herzen, «primo emigrato politico della tradizione russa», Arsen’ev colloca il proprio alter ego: è infatti a Ginevra, città in cui l’intellettuale anti-zarista pubblicò a partire dal 1869 il giornale «Kolokol», che per caso il poeta si è ritrovato dopo la partenza dalla Russia a frequentare i corsi di dottorato.
Già da questi fugaci accenni è evidente la scaltrita autoironia con cui Arsen’ev ha saputo rileggere la propria traiettoria esistenziale, dipingendosi come una sorta di predestinato all’emigrazione. Esiti differenti sarebbero stati d’altronde improbabili, visto il suo nutrito curriculum di attivista anti-putiniano, risalente alle proteste del 2011-2012; ma già nel decennio precedente, nell’ambito del «Laboratorio di azionismo poetico» fondato insieme a Roman Osminkin e a Dina Gatina, Arsen’ev aveva dato vita a una serie di performance e di interventi nello spazio pubblico pietroburghese che si richiamavano ecletticamente tanto all’underground sovietico (e soprattutto al concettualismo moscovita) quanto al lettrismo e al situazionismo francesi. Questa ricerca di un effetto spiazzante attraverso il programmatico détournement di elementi insiti nell’ambiente urbano trova un corrispettivo verbale nella sua poesia, dove pratica il cosiddetto ready-written. Qui, enunciati della realtà più prosastica, prelevati e distanziati dal loro contesto abituale, vengono investiti di una funzione poetica, assumendo una inattesa valenza surreale.
È il caso del componimento che dà il titolo alla raccolta, dove il testo del diploma di laurea dell’autore, trascritto integralmente e scandito in versi, grazie all’inserimento di note esplicative, si trasforma in una sorta di libello indirizzato contro le istituzioni accademiche e le aspirazioni coloniali implicite nei programmi di insegnamento delle lingue. Analogamente Pushkin – testo fondato sulla giustapposizione dei deliranti commenti rinvenuti in rete a margine di una «provocatoria mostra di arte contemporanea» (così recita il sottotitolo) – eleva a «fatto letterario» l’hate speech, rendendone visibile l’assoluta, ammorbante pervasività attuale. Arsen’ev sembra perseguirvi la produzione di veri e propri «oggetti poetici», auspicabilmente capaci di «infrangere il vetro contro cui vengono scagliati», come suggeriva negli anni Trenta il poeta Daniil Charms, da lì a breve vittima delle repressioni staliniane.
A questo tentativo di conferire ai propri versi una forza non solo illocutiva, ma anche perlocutiva, si accompagnano in Russo lingua non materna tonalità se non più sommesse, quantomeno improntate a riflessioni amaramente sarcastiche. Un esito certo non imprevisto, considerando l’involuzione della situazione politica in Russia. Se qualche anno fa Arsen’ev, dottorando a Ginevra, poteva ancora rileggere scherzosamente le affermazioni degli emigrati russi giunti a Parigi all’indomani della Rivoluzione d’Ottobre, dichiarando al contrario di loro di non essere «in missione» in Occidente, bensì «in tesi», ora la sua posizione, così come quella di molti altri relokanty («ricollocati») all’estero, a seguito dell’invasione dell’Ucraina, sembra aver acquisito una chiara, quanto dolorosa, irreparabilità. Riconoscendosi autore di libri che – come questo – sono usciti esclusivamente oltre confine, dove l’originale russo è relegato malinconicamente al ruolo di «testo a fronte», Arsen’ev non può non interrogarsi sui destini della sua lingua madre e matrigna, destinata in Europa a improvvidi tentativi di cancellazione dall’alto e ad altri, ben più interessanti esperimenti di meticciamento dal basso, là dove a parlarla sono per le strade, nei giardini pubblici o davanti agli asili russi, bielorussi o ucraini russofoni scaraventati dalla guerra o dalla repressione politica altrove.
Protagonisti di una lirica che, con grande approssimazione, potrebbe dirsi perfino amorosa: «ti ho scrutata / e mi sono decifrato / e ho pensato che forse / non dovremmo innamorarci / ‘una storia tra una deejay di kiev / e un agente straniero di pietrogrado’, / i personaggi si trovano / in circostanze inaspettate / sconsigliato ai giovani lettori».
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