Il segretario della Cgil Maurizio Landini sposta lo scontro dal piano della rivendicazione a quello politico delle strategie complessive del governo, tutte, non solo quelle economiche.

I politici, nelle persone dei due principali leader dell’opposizione, non si spostano dagli abituali percorsi, disertano piazza del Popolo con tanto di giustificazione risibile: «Altri impegni». La decisione di non presentarsi in piazza è stata presa dopo sofferte riflessioni e probabilmente non sarebbe stata la stessa prima della precettazione di Salvini. Dopo quel colpo, però, era inevitabile che Landini prendesse atto della portata ormai tutta politica dello scontro e a quel punto ai politici di professione, Schlein e Conte, sarebbe inevitabilmente toccata la parte sgradita dei comprimari. Peraltro proprio quella che cerca di cucirgli addosso la destra quando parla di Landini come «vero segretario del Pd».

È probabile però che la scelta sia stata suggerita anche da considerazioni meno legate all’immagine. Proprio perché era chiaro che Landini avrebbe alzato il tiro rispetto alle motivazioni specifiche dello sciopero, la presenza dei leader del Pd e del M5S avrebbe implicato l’accusa rivolta al leader sindacale di agire in conto terzi, spinto solo dall’appartenenza politica. Accusa che peraltro Giorgia Meloni scaglia comunque: «Lo sciopero è stato deciso in estate quando la legge di bilancio io neppure ce l’avevo in mente».

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Il segretario della Cgil non ha deluso le attese. Non che abbia dimenticato la legge di bilancio «piena di porcherie» o «i condoni che sono già arrivati a 13». Però, come annunciato già alla vigilia, non si ferma alla manovra e oppone all’intera politica economica del governo una visione totalmente alternativa. Poi va oltre. Parla della precettazione come di «vero e proprio attacco alla democrazia» e di lì alla riforma costituzionale, dunque al referendum, il passo è brevissimo: «Quelli che oggi vogliono cambiare la Costituzione sono gli stessi che non hanno contribuito a costruirla e non permetteremo a nessuno di ridurre gli spazi di democrazia». Se avesse detto che i fascisti, dalla cui sconfitta nacque la Carta, stanno cercando la rivincita sarebbe stato, nella sostanza, più o meno lo stesso.

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È una battaglia che si combatterà nelle urne del referendum e la posta in gioco non sarà solo il quesito referendario. Solo che questo allargamento della sfida referendaria era proprio quel che Giorgia Meloni voleva evitare. La sua formula, «Volete decidere o far decidere ai partiti», è di facile presa solo se in ballo c’è davvero solo il quesito referendario. Le cose sono destinate a diventare ben più difficili se in campo c’è molto di più: il modello di democrazia, il diritto di sciopero, i limiti del potere.

Per questo, molto più che per paura di una improbabile esplosione di conflittualità sociale, la premier cerca ogni giorno di sminuire la portata della precettazione e dunque dello scontro in atto. Lo ha fatto anche ieri: «Non ho deciso io. Il governo ha avuto un ruolo marginale. Ma un’autorità indipendente ha stabilito che non c’erano i requisiti dello sciopero generale».

Quello della premier sarebbe a questo punto un tentativo disperato e inutile anche se non ci fosse di mezzo Salvini. Che peraltro c’è e non sceglie il basso profilo. Ieri giubilava perché «20 milioni di cittadini possono circolare liberamente», ma aggiungendo un passaggio eloquente: «Il diritto di sciopero di una minoranza non può ledere il diritto al lavoro della maggioranza». Tanto per chiarire che non si sta affatto parlando solo di un regolamento da far burocraticamente rispettare.