Il nazionalismo di mercato del governo Meloni
Economia Sarebbe sbagliato pensare che la manovra di finanza pubblica per il 2024 del governo Meloni sia priva di una logica complessiva. A tentarne una valutazione d’insieme, oltre quella delle sue […]
Economia Sarebbe sbagliato pensare che la manovra di finanza pubblica per il 2024 del governo Meloni sia priva di una logica complessiva. A tentarne una valutazione d’insieme, oltre quella delle sue […]
Sarebbe sbagliato pensare che la manovra di finanza pubblica per il 2024 del governo Meloni sia priva di una logica complessiva. A tentarne una valutazione d’insieme, oltre quella delle sue specifiche – criticabilissime – parti, colpiscono due macro-elementi correlati. Il primo è che una mobilitazione totale di circa 30 miliardi di euro produrrà un impatto complessivo sul Pil di appena lo 0,2%, il secondo è che la gran parte delle singole misure di cui è fatta la manovra è costituita da riduzioni di tasse (a partire dalla decontribuzione del costo del lavoro per arrivare alla miriade di bonus e benefici fiscali).
Quale interpretazione darne? La modestia della crescita aggiuntiva si deve proprio al fatto che le riduzioni delle tasse di cui la manovra abbonda hanno un limitatissimo moltiplicatore sul Pil (0,5 punti), mentre le misure che hanno un più elevato moltiplicatore (fino a 3 punti), e cioè quelle di spesa pubblica diretta specie in investimenti, sono pressocché assenti. Si pensi alla sanità, all’istruzione, alla cultura, alla Ricerca e Sviluppo.
A ciò vanno aggiunti altri due elementi. Da una parte vi sono in manovra 20 miliardi di privatizzazioni. Dall’altra le politiche per i lavoratori e per i ceti medi – pur presenti nella manovra – trattano il lavoro solo in termini “residuali”, per sanzionarne la frammentarietà e la precarietà e come fatto punitivo e coercitivo per i soggetti, una visione ben lontana dalla concezione del lavoro come veicolo di identità antropologicamente ricca che ha sempre animato, dall’Ottocento in poi, le istanze tanto del socialismo quanto del cattolicesimo democratico. A questo punto risulta un quadro abbastanza eloquente: la politica economica della destra affida la crescita ancora una volta al mercato, non agli impulsi che dovrebbero essere impressi dall’operatore pubblico.
Né questa ininterrotta attribuzione del primato al mercato è in contraddizione con il nazionalismo della destra, la quale, tra le forme di ibridazione tra nazionalismo populista e neoliberismo che si stanno verificando, sceglie un “nazionalismo mercatista” che lascia spazi per una direzionalità nazionalistica “opaca” (tipica quella esercitabile attraverso la Cassa Depositi e Prestiti), ma mantiene sostanzialmente intatti i dogmi del neoliberismo, tra cui la svalutazione del lavoro e l’enfasi sulle privatizzazioni, incurante dei risultati ottenuti su questo terreno nel passato.
In Italia è stato documentato che addirittura due terzi dello spettacolare incremento della TFP (total factor productivity) italiana – che pose l’Italia in cima alle classifiche internazionali – realizzatosi nei primi cinquanta anni del dopoguerra, si deve al contributo dell’IRI, così come si deve alla sua scomparsa, a seguito delle privatizzazioni della seconda metà degli anni ’90, il crollo negli indicatori italiani di crescita e di produttività.
La quasi scomparsa dell’impresa pubblica è venuta a coincidere con: a) la pressocché totale scomparsa della grande impresa tout court; b) la riduzione drastica delle spese in Ricerca e Sviluppo (in precedenza effettuate soprattutto dalle grandi imprese pubbliche); c) i processi di deindustrializzazione massiccia in alcune aree e di desertificazione dello sviluppo per quasi tutto il Sud d’Italia.
Più complessivamente è stato argomentato quanto fosse infondata la convinzione che le privatizzazioni «avrebbero risvegliato capacità innovative soffocate nelle imprese pubbliche», essendo spesso vero il contrario.
Ad esempio, gli ingredienti del passaggio dall’analogico al digitale nella commutazione della telefonia fissa erano già stati adottati dalle imprese pubbliche di telecomunicazioni molto prima della stagione delle privatizzazioni. Per di più con retribuzioni molto più ragionevoli di quelle che prevalgono oggi, tant’è che l’amministratore delegato dell’Eni nel 1991 aveva una retribuzione pari all’equivalente di 300.000 euro l’anno, 6/7 volte quella di un funzionario, mentre, dopo la privatizzazione, ha una retribuzione pari a 4 milioni di euro l’anno, 83 volte rispetto ai funzionari.
Il mondo sta cambiando vertiginosamente intorno a noi (basti solo ricordare che la Cina rappresenta oggi il 50% dei nuovi brevetti nelle tecnologie energetiche) e non possiamo accomodare l’inflazione in un equilibrio di bassa crescita, come spiega Francesco Saraceno in “Oltre le banche centrali” (Luiss): urge dare la priorità alle nuove esigenze di investimento e a politiche economiche ad esse adeguate. In verità,
la trasformazione complessiva di cui l’Italia ha bisogno richiede ben altro che tagli delle tasse, sussidi, rimozione della regolazione. La sfida posta al nostro modello di sviluppo è muldimensionale, dalla transizione energetica e ambientale a quella sociale e tecnologica, e reclama un paradigma nuovo, profondamente motivato sul piano del pensiero e dell’ispirazione ideale.
I consigli di mema
Gli articoli dall'Archivio per approfondire questo argomento