Con la morte del presidente Ebrahim Raisi (e del suo ministro degli Esteri Amirabdolahian) si apre in Iran una doppia successione.

La prima, a breve, è quella per la presidenza dove il suo vice Mohammed Mokhber dovrà guidare il Paese a nuove elezioni entro cinquanta giorni.

La seconda riguarda quella alla Guida Suprema Ali Khamenei, anziano e di salute malferma, di cui Raisi veniva indicato come un probabile successore (insieme allo stesso figlio di Khamenei Mojtaba).

Il tutto avviene in un Paese dove si manifesta un sempre maggiore scollamento tra il regime e la popolazione e in un contesto regionale e internazionale incendiario in cui, con la guerra di Gaza, l’Iran e Israele il mese scorso si sono confrontati per la prima volta nella storia sul piano militare.

La scomparsa di Raisi ha già delle conseguenze immediate interne insieme ad altre che potrebbero incidere sulla repubblica islamica sciita e su tutta la regione. In primo luogo la transizione alla presidenza – che in Iran è di fatto la direzione governo mentre la massima istanza è la Guida Suprema Alì Khamenei – viene assunta dal vice di Raisi, Mohammed Mokhber, personaggio non di primissimo piano ma gerarca di alto livello in quanto capo della Setad, la fondazione della Guida Suprema che costituisce il più grande conglomerato economico del Paese.

Ma Raisi non era soltanto il presidente con una lunga carriera come capo della magistratura: era il leader ultraconservatore che avevano voluto Khamenei e i Pasdaran, le guardie della Rivoluzione, per conquistare la presidenza nel 2021 e succedere al più moderato Hassan Rohani che aveva firmato gli accordi sul nucleare con l’amministrazione Obama nel 2015, contestati per altro dall’ala più radicale del regime.

La sua ascesa è stata dovuta al più rilevante cambiamento del regime iraniano degli ultimi decenni: la sempre maggiore influenza dell’ala militare dei Pasdaran che ha condizionato anche l’establishment religioso.

Le Guardie della Rivoluzione – fondamentali durante rivoluzione e nella guerra contro il dittatore iracheno Saddam Hussein negli anni Ottanta – avevano già conquistato la presidenza con Ahmadinejad ma dopo la fase di Rohani volevano riaffermare la loro preminenza nel Paese sia sul fronte della sicurezza che su quello economico. Le linee di politica estera e interna un tempo venivano elaborate nel dibattito, a volte assai aspro, all’interno delle sfere religiose di Qom, una sorta di Vaticano dello sciismo, oggi l’ala militare, già in primo piano con il generale Qassem Soleimani – eliminato dagli americani il 3 gennaio del 2020 a Baghdad – è diventata sempre più decisiva. E per un motivo evidente: dopo l’11 settembre 2001, la guerra afghana e l’invasione americana dell’Iraq nel 2003, i militari sono andati sempre più in prima linea su un fronte mediorientale diventato ribollente con l’ascesa in Mesopotamia di Al Qaeda e dell’Isis, due formazioni sunnite terroristiche ostili ai musulmani sciiti e all’Iran. Con le primavere arabe, la rivolta contro il siriano Assad nel 2011 e lo scontro tra Hezbollah libanesi e Israele, i Pasdaran hanno di fatto guidato non solo le truppe ma anche determinato la politica estera e le alleanze Teheran.

Raisi, pur con il turbante nero dei Seyed, segno distintivo dei discendenti di Maometto, era il risultato di questa evoluzione. Non è un caso che ieri ci sia stato il cordoglio di Hamas e degli Hezbollah, oltre a quello russo e cinese, perché Raisi come presidente e possibile successore di Khamenei rappresentava un punto di riferimento fondamentale per la sopravvivenza di queste e altre formazioni, dall’Iraq allo Yemen. Raisi era un duro del regime: da giovane giudice era stato nei cosiddetti “comitati della morte” che alla fine degli anni Ottanta avevano eliminato oltre 5mila oppositori: di queste esecuzioni era stato accusato anche dall’ayatollah Montazeri, delfino di Khomeini fondatore della rivoluzione nel 1979, poi caduto in disgrazia per le sue posizioni “liberali”.
Lui si presentava come un repressore ideale per tenere a bada la società iraniana prima scossa dall’Onda Verde e poi dal movimento “Donne vita e libertà”: centinaia di vittime e dozzine di condanne a morte. Non c’era più spazio per i riformisti alla Mohammed Khatami o per i moderati come Rohani. Per questo suo curriculum da “duro e puro” del regime, Raisi era stato scelto nel 2021 come candidato alla presidenza al posto di Rohani che secondo i vertici della repubblica islamica aveva fallito proprio nella svolta “filo-occidentale”: gli accordi sul nucleare con gli Usa non avevano portato alcun vantaggio concreto alla repubblica islamica.

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Gli Stati uniti, dopo avere promesso di togliere le sanzioni, avevano frenato sulla riapertura dei commerci iraniani (secondo produttore al mondo di gas e quarto di petrolio) rendendo carta straccia gli accordi con l’Europa (in Italia Rohani aveva firmato un memorandum d’intesa da 30 miliardi di dollari). Con la presidenza Trump nel 2018 Washington si era ritirata unilateralmente dall’intesa e soltanto da poco Teheran e gli Usa hanno ripreso a negoziare in maniera assai riservata in Oman.

Ma se Biden oggi intende ancora trattare con l’Iran cosa accadrà se alle elezioni in Usa di novembre vincesse Trump? Questa è l’altra vera incognita del regime. Netanyahu, che per restare in sella intende perseguire un atteggiamento bellicista, non aspetta altro che il ritorno del suo amico alla Casa Bianca, soprattutto ora che il procuratore della Corte penale internazionale ha chiesto un mandato di arresto per lui e la leadership di Hamas per crimini di guerra e contro l’umanità.

In questo scenario tra instabilità ed escalation denso di incognite si moltiplicano ipotesi e scenari come quello di un attentato esterno a Raisi ordito da Israele partendo dall’Azerbaijan (che sostiene insieme alla Turchia) oppure di un colpo assestato dall’opposizione interna. In qualunque caso Teheran non direbbe mai di avere subito uno scacco del genere: sarebbe ammettere una vulnerabilità che il regime non si può permettere, oggi meno che mai.