Un gruppo di soldati che avanza in un paesaggio nevoso, in una guerra senza fronte contro un nemico invisibile. Per il suo primo film ufficialmente «di finzione» Roberto Minervini sceglie paesaggi americani che non aveva ancora esplorato. Quello del Nord del paese (lo stato è il Montana) quello del western e quello della Storia. Ambientato nel 1862, durante la Guerra civile, I dannati (oggi in uscita nelle sale italiane) ci porta nel mezzo di una compagnia di volontari dell’esercito a cui è stato ordinato di presidiare una zona dell’Ovest. La missione è confusa come il loro avanzare, in un territorio montagnoso e deserto, coperto di bianco.

IL FILM inizia in realtà con la lunga inquadratura fissa di un gruppo di lupi che si contendono i resti un cervo. Da quell’immagine dinamica, di ferocia animale, Minervini stacca su un drappello di soldati intirizziti dal gelo, che camminano tra gli alberi un po’ come sonnambuli, verso un orizzonte scosceso e nebbioso. Se il titolo del film ricorda quello di uno spaghetti western, magari nevoso come li amava anche Corbucci, I dannati ha, allo stesso tempo, la qualità astratta/teorica di certo Kurosawa (che influenzò i western minimalisti di Leone e Walter Hill) e quella immersiva, intima, a cui Minervini ci ha abituato nei suoi «documentari». È sicuramente un film di svolta, per il regista di Ferma il tuo cuore in affanno, Louisiana e Che fare quando il mondo è in fiamme? Ma, nonostante i costumi e le pistole d’epoca, oltre alla traccia di una trama, la svolta non sta nel confine ormai esploso (anche grazie al percorso di autori come lui) tra documentario e fiction. Quanto piuttosto in un approfondimento della dimensione filosofica, emblematica, del suo soggetto – un lavoro decisamente «a togliere» rispetto specialmente agli ultimi due film. «Il mio metodo di lavoro è rimasto essenzialmente lo stesso, combinando situazioni di finzione e momenti di osservazione. Una cosa che ho sempre fatto è usare ogni elemento, che sia di finzione o organicamente presente, come strumento per indurre una partecipazione full immersion degli interpreti del film» dice Minervini in una conversazione con Dennis Lim pubblicata sul press book del film.

CHE – COME AL SOLITO – non è partito da un testo scritto ma da un’ipotesi di struttura che si è evoluta nel corso delle lavorazione e attraverso il rapporto con gli attori – le cui battute (rarefatti anche i dialoghi, perché il vuoto, il freddo e la paura di quel nulla che li circonda dominano tutto) derivano non da un copione ma da conversazioni con il regista, che gli interpreti hanno rielaborato in maniera personale. Non a caso il filo rosso tra questo e i lavori precedenti di Minervini si trova anche nel cast, con Noah e Judah Carlson, già con lui in Ferma il tuo cuore in affanno. Spesso ripresi molto da vicino (a tratti, è Minervini stesso dietro alla macchina), quasi con la purezza formale di ritratti rinascimentali , i soldati (alcuni giovani come bambin) sono il nostro mezzo per accedere a una full immersion nella guerra. Letteralmente parlando è quella di Secessione, come momento determinante della vicenda americana; e una guerra che, per certi versi, si ricombatte oggi, nella profonda spaccatura del paese.

MA, NELL’UNICA sparatoria, il nemico rimane invisibile dietro alla fiamma rossa dei colpi che arrivano dal verde. E sono solo delle ombre a cavallo quella che vediamo a un cerro punto in lenta, silenziosa, processione. Alcuni dei «nostri» soldati cadono sotto quei colpi, altri li ritroveremo morti in un accampamento. Quelli che continuano sembrano sempre più sperduti, più giovani, più sacrificali.
E nello smarrimento di quegli uomini in uniforme, è facile immaginare, e immaginarci, in tante altre guerre, anche molto più recenti, dove chi muore non sa bene cosa deve fare e, soprattutto, perché è stato mandato lì.