Harris-Walz, l’entusiasmo e il bisogno di cambiare
Elettorale americana Un profilo autonomo rispetto a Biden non può che essere definito dall’atteggiamento verso Gaza, una questione impellente e molto forte emotivamente
Elettorale americana Un profilo autonomo rispetto a Biden non può che essere definito dall’atteggiamento verso Gaza, una questione impellente e molto forte emotivamente
A 77 giorni dalle presidenziali Usa di novembre, il risultato politico più consistente della convention di Chicago sarà – sperano i democratici – un vistoso salto in avanti nei sondaggi per il ticket Harris-Walz.
Un rimbalzo – bounce, come si dice in gergo – tale da consegnargli un vantaggio abbastanza solido rispetto al ticket Trump-Vance nello scorcio finale e cruciale della corsa. La quattro-giorni democratica è concentrata su quest’obiettivo, ogni giornata dominata dalle star del partito, a iniziare dal presidente ormai uscente, assurto a figura eroica per aver rinunciato alla candidatura e passato la torcia a Kamala Harris. Il racconto incentrato intorno ai big – i Clinton, gli Obama, innanzitutto – segue una trama scandita da titoli a effetto assegnati ai temi d’ogni giornata lungo il filo conduttore dello slogan For the People, For our Future. E alle stelle democratiche s’affiancheranno celebrities dello spettacolo.
Ai quattromila delegati il compito di dilatare e diffondere il messaggio di ottimismo, l’immagine di un partito unito, tornato in campo per vincere, per tenere la Casa Bianca e per conquistare la maggioranza in entrambi i rami del Congresso. E sì, alla rassegnazione alla sconfitta, finché in campo c’era Joe Biden, solo un mese fa, s’accompagnava il terrore di perdere con lui anche il Congresso e le elezioni locali. Temevano, i democratici, una débâcle politica, se non addirittura esistenziale, con Biden candidato.
LA CONVENTION è dunque chiamata a ratificare una nomination presidenziale non scelta dai democratici che hanno votato alle primarie e, nell’operare una simile forzatura politica, a trasmettere il senso di un partito che ha ritrovato la sua forza, la sua capacità organizzativa, anche la sua passione, in contrasto con gli avversari repubblicani, che non hanno più un partito, ridotti a soldatini di una macchina politica a esclusivo servizio di una persona, peraltro con sempre più evidenti tratti psicotici.
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Formazione politica e birra gratis, è qui la festaTutto questo dentro l’immenso catino dell’Union Center. Fuori è un’altra storia. Kamala Harris dovrà trovare il modo di connettere il dentro e il fuori della convention, entrambi egualmente importanti per il suo destino presidenziale, sapendo fare profitto delle ovazioni che le saranno riservate dai delegati ma anche delle proteste in piazza, il messaggio ultimativo di chi chiede semplicemente il cessate-il-fuoco a Gaza e la fine di ogni cedimento a Netanyahu. La missione di Antony Blinken in Israele, proprio in questi giorni, potrebbe facilitare il compito, se poi effettivamente Bibi terrà fede a un impegno per il cessate il fuoco e non farà una delle sue piroette e dare man forte all’amico Trump. E anche per riflesso della scelta di Netanyahu, l’impresa di Harris si presenta difficile.
Nella città della politica per eccellenza, la macchina di Kamala è chiamata a costruire un’operazione che la distingua dal suo attuale capo e la metta nelle condizioni di lanciare un messaggio di ascolto verso chi contesta con fermezza la politica mediorientale dell’amministrazione di cui lei è parte ma di cui non deve necessariamente essere l’erede. Ne sarà capace?
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I tecno-reazionari d’assalto dietro a TrumpLA TENTAZIONE – tra i suoi consiglieri – di «lasciare cantare» i manifestanti è forte. Si basa sulla previsione di un’alta partecipazione al voto nelle aree dove è più sentita la causa palestinese – in particolare la città metropolitana di Detroit – tale da ridurre il rischio di un insidioso astensionismo di protesta nei confronti del ticket democratico.
Il tema mediorientale, come quello della guerra ucraina, è un test particolarmente importante per Harris. Anche se normalmente, nelle campagne elettorali, le questioni di carattere internazionale sono molto meno rilevanti di quelle di politica interna (immigrazione innanzitutto) e di economia (inflazione e aumento dei prezzi), questa volta esse hanno una visibilità mediatica che ne esalta la portata. La piattaforma «congressuale» di Harris non è che la conferma dell’agenda Biden, e non potrebbe essere diversamente. Ma un suo profilo autonomo non può che essere definito dall’atteggiamento verso una questione impellente ed emotivamente molto forte, come Gaza. Affermare una propria “linea” non è solo una scelta politica ma anche l’asserzione di una propria leadership: ha la forza Harris per affrontare, da numero uno, non più da numero due, una questione remota geograficamente ma terribilmente presente nell’agone politico attuale?
A HARRIS E A WALZ finora non è stato chiesto niente altro, dal partito e dai media amici, che mettere in scena la vitalità che ormai si stava spegnendo del tutto, implicitamente attribuendo a Kamala una pressoché totale continuità politica. Una leader diversa, per la stessa politica. La convention – con la sua spettacolarità, come un palcoscenico teatrale – esalta il cambiamento dei protagonisti sulla scena.
All’indubbia energia che trasmettono Harris e Walz s’aggiunge la specificità dei loro caratteri e delle loro storie, una donna figlia d’immigrati neri e un insegnante progressista del midwest. Due personaggi da casting cinematografico. Grande ottimismo, dunque, tra le mura dell’United Center, che però, a personaggi che non sono attori ma politici di lungo corso, non dovrebbe far dimenticare la centralità della politica.
Non solo la protesta per Gaza bussa alla porta delle convention, ma su di essa incombe la presenza di Trump, che imperterrito continua la sua campagna a base d’insulti bassi ed esibizioni di volgare narcisismo. Che errore, ridurlo solo a questo registro, detestato solo da chi non lo voterà mai. In un servizio della Cnn dall’Iowa sono interpellati elettori ed elettrici repubblicane che voteranno Trump, qualunque cosa dica o faccia, una delle quali dice: «Perché voto Trump? Perché mi rappresenta e fa i miei interessi. Mica perché è il mio migliore amico».
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