Si era dato da fare con largo anticipo il Tribunale supremo elettorale (ben prima dell’arrivo degli osservatori internazionali) per riservare arbitrariamente alle sole destre la contesa di questo primo turno di elezioni presidenziali (oltre che parlamentari e municipali) in Guatemala, inibendo con pretesti vari la partecipazione di tre candidati della sinistra (o comunque democratici). A cominciare dalla indigena maya Thelma Cabeza del Movimiento para la Liberación de los Pueblos, in un paese dove almeno la metà della popolazione è originaria.

E invece al ballottaggio del 20 agosto prossimo a sfidare Sandra Torres (della conservatrice Unidad Nacional de la Esperanza, che ha ottenuto il 15,8 %) ci sarà un outsider progressista di lusso che i sondaggi davano ampiamente perdente fra i ben 22 pretendenti: Bernardo Arévalo del Movimiento Semilla (seme) affermatosi, soprattutto nelle città, con l’11,8%. Nello stupore dei suoi stessi contendenti.

SEMILLA SORSE NEL 2015 dalle manifestazioni spontanee in tutto il paese contro la povertà e soprattutto la tremenda corruzione che caratterizzò il mandato dell’allora presidente (ex generale) Otto Perez Molina, che infatti dovette dimettersi. E guidò pure le proteste del 2021. Ma in particolare Bernardo è figlio di Juan José Arévalo, eletto presidente del Guatemala durante il decennio della Rivoluzione Democratica d’Ottobre del 1944, ispirata da giovani ufficiali che si ribellarono al dittatore Jorge Ubico. Una rivoluzione che seguì quella messicana del 1910 (la prima dopo quella francese e precedente alla bolscevica) imperniandosi entrambe sulla necessità di una riforma agraria emancipatrice dall’atavico schema colonial/oligarchico della conquista spagnola.

QUELL’ESPERIENZA (anticipatrice dello stesso castrismo) fu rovesciata dal golpe ordito dalla bananiera United Fruit Co. (e dalla Cia) nel 1954. Il Che ne fu testimone sul posto. Successivamente nell’esilio Juan José fu pure tra i promotori del semiclandestino Partito Guatemalteco del Lavoro.

Va da sé che Bernardo Arévalo (nato in Uruguay dove la sua famiglia era riparata) non avrà pressoché alcuna chance nella disputa finale con Sandra Torres. Ma almeno è riuscito a sconfiggere i destri più titolati che ovviamente ora convergeranno sulla sua avversaria: a partire da Manuel Conde, candidato dal partito Vamos del capo di stato uscente Alejandro Giammattei, che prima di uscire di scena ha fatto chiudere ElPeriodico (l’unico quotidiano indipendente) e condannare a 6 anni il suo direttore Ruben Zamora. Ma soprattutto Zury Rios del partito Valor, anche lei figlia (all’inverso) del generale genocida Efraín Rios Montt, dittatore fra l’82 e ’83 nonché fra gli apripista delle sette fondamentaliste in America Latina (in chiave anti Teologia della Liberazione) essendo egli stesso “pastore della Iglesia del Verbo” (mentre suo fratello Mario Enrique era vescovo cattolico).

IN OGNI CASO FRA IL 60% dei potenziali votanti che si sono recati alle urne, il primo partito è stato il voto nullo col 17.4%. Mentre le schede bianche hanno di fatto conteso il quarto posto sia a Conde che a Zury Rios.

Come a dire che il malcontento è assai profondo e l’affermazione parziale del partito Semilla ha costituito un disperato sussulto di resistenza in un paese che dopo il colpo di stato del ’54 ha vantato la guerriglia più antica del subcontinente latinoamericano (quanto quella colombiana) ma dove la sinistra (al di là dei propri stessi limiti) è stata via via estromessa d’autorità. In particolare dopo l’azzeramento della Commissione internazionale contro l’impunità delle Nazioni unite da parte del predecessore di Giammattei, l’ex presentatore e comico televisivo Jimmy Morales. Un’entità scaturita dagli storici accordi di pace del ’96 che posero fine alla sanguinosa guerra civile. Cui seguì il rapporto della Commissione della Verità dell’Onu che certificò il genocidio di 190mila indigeni. Già ampiamente documentato dal vescovo Juan Gerardi, assassinato a Città di Guatemala nel ‘98.

DAL CANTO SUO Sandra Torres è alla terza candidatura presidenziale, giungendo sempre al ballottaggio. Primera Dama del presidente moderato Àlvaro Colom (2008/2012) non esitò a divorziare dal lui per dribblare il veto costituzionale alla candidatura di familiari di ex capi di stato. È stata in carcere per qualche mese nel 2019 per finanziamenti elettorali illeciti, risultando poi assolta.

Sarebbe la prima donna ad assurgere alla massima carica dello stato (ci aveva provato pure nel 2011 la Nobel per la pace Rigoberta Menchù, estraniatasi poi dalla scena politica). Nel paese più grande e popolato, più bianco e al contempo indigeno, più ricco e diseguale, più narco e criminalmente organizzato dell’istmo centroamericano. Immerso nella più totale indifferenza della comunità internazionale.