A ottant’anni Martin Scorsese ha fatto il suo primo western. E lo ha fatto -come Michael Cimino con I cancelli del cielo – scegliendo una chiave fondativa, una lunghezza epica (più di tre ore e mezza) e una storia vera poco conosciuta, dal respiro e dalle ripercussioni vaste come le distese dell’Oklahoma in cui è ambientato e che, con una certa luna, si coprono di fiori blu. Killers of the Flower Moon (uscita italiana ad ottobre) è un green western, un western verde, adattato dal libro omonimo di David Grann, già autore di The Lost City of Z, da cui era stato tratto l’omonimo film di James Grey.La crudele ironia, si apprende in dettaglio dal libro di Grann è che i nativi miliardari – che vediamo sorridenti, eleganti in abiti colorati, ingioiellati a bordo di macchine lucide – non controllano veramente il patrimonio, che viene loro elargito da «guardiani» su richieste specifiche

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Scorsese e il capitalismo oscuro dentro di noiL’ATTACCO – un cinegiornale d’inizio secolo- sembra arrivare da un altro pianeta tanto le immagini sono inedite, il capovolgimento esatto della realtà di Frontiera a cui ci ha abituato il cinema. Nella contea omonima dello stato dove sono stati costretti a trasferirsi dal governo Usa, contrariamente alle altre tribù di nativi d’America, gli Osage sono infatti diventati ricchissimi grazie ad un accordo che ha lasciato loro i diritti di sfruttamento del sottosuolo gonfio di petrolio. Scorsese immortala l’apparizione di quel primo zampillo di oro nero come se girasse una danza della pioggia. Qui sono i bianchi, in gran parte stanchi e un po’ straccioni, che se la passano male e che arrivano da lontano a vagonate per cercare lavoro.
La crudele ironia, si apprende in dettaglio dal libro di Grann è che i nativi miliardari – che vediamo sorridenti, eleganti in abiti colorati, ingioiellati a bordo di macchine lucide – non controllano veramente il patrimonio, che viene loro elargito da «guardiani» su richieste specifiche, con il contagocce. A Fairfax, una Main street all’ombra dei pozzi, arriva anche Ernest Burkhart (Leonardo Di Caprio), reduce dal fronte in Europa con i denti marci, che trova accoglienza dallo zio. «Non darmi del signore. Chiamami zio. O re, come mi chiamavi da piccolo» dice a Ernest William Hale (Robert De Niro), orco mellifluo il cui conto in banca vale una frazione di quello che gli indiani possiedono sotto l’erba pascolata dalle sue mucche. Tre le lezioni di vita che «il re» impartisce al nipote durante il primo incontro c’è anche quella di non parlare troppo e di non sottovalutare gli Osage che sono silenziosi e ingenui, ma anche «molto molto furbi».

GLI OSAGE stanno però morendo, misteriosamente, uno ad uno, uccisi dal diabete o in circostanze misteriose che nessuno si preoccupa di spiegare. Dalla danza della pioggia si passa velocemente a un funerale. In caso di morte qualsiasi proprietà viene trasferita al parente più stretto, spesso e convenientemente un marito bianco. Come se l’associazione a delinquere che si delinea velocemente nella trama (Goodfellas con lo Stetson , dopo tutto siamo in un film di Scorsese) non bastasse, le malefatte di Hale e dei governanti bianchi di Fairfax includono anche frodi assicurative e furti dei gioielli dalle tombe degli Osage morti. Lo sterminio sistematico di una popolazione operato da ladri di polli: Scorsese ce lo presenta con molta più classe, umanità e ironia di quanto abbia fatto ieri Jonathan Glazer in The Zone of Interest.

E, NELLA SCENEGGIATURA del film, Eric Roth non manca di citare un’altra epurazione avvenuta poco lontano proprio in quegli anni, il massacro di Tulsa (1921) in cui una folla di suprematisti bianchi mise a ferro e fuoco quella che allora era conosciuta come la Wall Street dei neri. Hale, che sembra sapere bene cos’è il Ku Klux Klan non manca di lasciarsi scappare anche qualche battutina sugli ebrei . Il razzismo non ha frontiere e viaggia nel tempo. Anche Ernest – più che altro per avidità- si sposa con una Osage facoltosa, Mollie (Lili Gladstone), che languisce di diabete mentre due delle sue sorelle vengono fatte fuori sommariamente. La strage assume proporzioni così vistose che da Washington Hoover manda l’Fbi. Il libro di Grann dava molto spazio a quella che è considerata l’origin story del Bureau. Scorsese è meno interessato alla «cavalleria» e più alla dinamica del male in atto. Contro cui, il volto fermo, paziente e sofferente di Gladstone sembra quello di un cristo.