Visioni

Scorsese e il capitalismo oscuro dentro di noi

Scorsese e il capitalismo oscuro dentro di noiMartin Scorsese

Wolf of Wall Street Un grande film, parabola estrema dell'America oggi

Pubblicato quasi 11 anni faEdizione del 23 gennaio 2014

Abbiamo deciso di dedicare uno speciale a The Wolf of Wall Street perché per noi è un grande film. E lo è al di là della storia («vera») che racconta, ascesa e caduta di Jordan Belfort, «l’uomo di Neanderthal di Wall Street» come lo hanno definito in Cahiers du Cinéma, e della sua passione feroce per il denaro, le droghe, il sesso, i piaceri, la sfida a qualsiasi regola.

Nelle tre ore di film, questo ciarlatano seducente ci sbatte letteralmente in faccia, senza retorica o sentimentalismi, un controcampo che siamo noi, il nostro tempo, i meccanismi di un capitalismo narcisista e degenerato che però ammalia senza scampo. Eccoci lì, in una delle ultime inquadrature, lo sguardo inebetito e stanco pronti a consegnarci mani e piedi alle sue promesse…

Chissà se è questo che ha fatto tanto infuriare taluni, perché Scorsese nelle sue immagini avvolgenti, di maestria mai gratuita, non offre rendenzione. Non a noi, almeno. Non ci sono i «buoni» e i «cattivi», e in fondo anche l’integerrimo agente dell’Fbi quando se ne torna a casa sul vagone puzzolente del metro, osservando altri «poveracci» come lui, sembra attraversato se non proprio da un rimpianto sicuramente da qualche dubbio.

L’orgia bestiale a cui assistiamo conquista. A chi non piacerebbe stare meglio, permettersi il lusso, non essere costretto al tran tran della rinuncia che la crisi mondiale ha ormai trasformato in abitudine

Oltre la spinta della rivolta, Scorsese mette a nudo quella del «dirty pleasure», del piacere segreto di cui ci si vergogna, coltivato nell’angolo remoto di qualsiasi cervello. È come comprare il biglietto della lotteria, o sognare la combinazione giusta a qualche slot machine…

È cinismo ? Forse. Ma l’immaginario vivo, e vitale, non è quello delle frasi fatte. Non è laddove si accarezza e blandisce, come un Jordan Belfort qualsiasi, offrendo ciò che si vuole vedere, ciò che rassicura e fa sentire un po’ più buoni. No. Il corpo a corpo di ogni fotogramma del film con la nostra epoca è implacabile nel metterne a nudo la bestialità o la rassegnazione toccandone i nervi scoperti, il sentimento della catastrofe che vi domina.

Si ride di fronte alle contorsioni e dalle smorfie strafatte di Belfort/Di Caprio, storditi dalla sua esaltazione: quel piccolo mediocre squattrinato con moglie parruchiera, sorta di Gatsby senza sentimento, divenuto milionario a spese di altri mediocri come lui. Una giungla, di rabbia e di odio, dove il sentimentale somiglia più alla farsa.

Ma la responsabilità a cui il film inchioda non è quella classica del colpevole, davanti a cui si tira un sospiro di sollievo. Piuttosto ci dice: e noi?

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