Se qualche turista esce di pochi metri dal quadrilatero semi-pedonalizzato del centro storico è facile che arrivi in una piazza con una bella aiuola verde. Tra fermate degli autobus e una delle strade più larghe e trafficate di Trieste, può essere che non ci faccia caso, che nemmeno si accorga che in mezzo al verde c’è una pozza d’acqua e un monumento nero, filiforme, altissimo. Se ne accorge sicuramente se è primavera e i due alberi di Giuda ai suoi lati splendono del lilla intenso di mille fiori. Un monumento senza una targa, nulla, qualcuno scatta una fotografia ma la sua storia, probabile, gli resterà sconosciuta. Eppure. Marcello Mascherini ha fuso nel bronzo due figure scabre, il bronzo graffiato, scavato, come fosse pietra del Carso. Due innamorati stretti in un bacio che sembra raggiungere il cielo. Sono Pino e Laura, i protagonisti di un amore interrotto dalla barbarie.

È il 19 marzo 1945, Trieste è annessa al Terzo Reich, in piazza Oberdan c’è il palazzo della Gestapo dove si imprigiona e si tortura. Pino e Laura si danno appuntamento in quella piazza ma Laura ritarda e Pino fa qualche passo o se ne sta immobile, si guarda intorno, guarda il vuoto, aspetta. Una pattuglia di SS gli chiede i documenti, sbraita, perquisisce, in una tasca la tessera della Organisation Todt, quella del lavoro coatto e tanto basta per crederlo «disertore». Da lì alle carceri del Coroneo in mezzo ai «politici». Giorni di ottimismo, ci sarà l’interrogatorio, mi rilasceranno. Giorni di pena per i genitori e per Laura che forse è stata fermata anche lei, che forse sente tutta la tristezza per quel abbraccio che ci sarebbe dovuto essere e continua a ritardare.

Giorni di conoscenza degli altri carcerati che diventa solidarietà, i momenti in comune, i racconti, le speranze. Non aveva rapporti con la Resistenza, prima, era solo uno studente di architettura che amava una ragazza e che aspettava passasse quel tempo nero che si sentiva intorno. Forse conosceva, forse con qualcuno parlava, forse qualcuno comunque lo teneva d’occhio. Raccomandazioni piccole, trepidanti, un biglietto di poche righe a Laura «Vai sempre in rifugio», «Stai attenta che ci sono anche spie da noi».

Al Coroneo, mentre la scarcerazione appare sempre più lontana, c’è la presenza fisica della Resistenza. Italiani sloveni croati catturati nei boschi, rastrellati dai paesi dati alle fiamme, partigiani in armi o semplici ostaggi. Per una spiata, per la sfortuna, per una fatale distrazione. Il giorno di Pasqua cade il primo aprile e sembra davvero festa: tutti in cortile, persino vino e sigarette. Forse è successo davvero, forse Pino lo scrive per rincuorare, per dire «sto bene» a chi ama che è quello che si fa anche quando si sta male da morire. Pino scrive ai genitori, ne viene fuori l’immagine di una giornata di fierezza partigiana e anche lui ormai è parte di quell’unico popolo «in cortile, tutti insieme abbiamo cantato l’inno partigiano e gli slavi sono maestri del canto … e che eleganza stamattina … Insomma la miglior dimostrazione di strafottenza più schietta e manifesta».

Sappiamo davvero poco di Pino, solo che si chiama Giuseppe Robusti e che ha ventidue anni. Il suo nome in un breve elenco di nomi, famiglie da avvisare, un biglietto nella tasca di pantaloni sdruciti scampati al fuoco in Risiera. Sì, Pino è stato trasferito in Risiera, il campo di concentramento dove ammassano gli ebrei catturati anche ben lontano da Trieste per spedirli verso i campi di sterminio, il campo di polizia dove migliaia di antifascisti vengono uccisi e poi bruciati. Campo di concentramento con forno crematorio, i «politici» occupano le celle al pianterreno ma per pochi giorni, poi la notte con gli altoparlanti che urlano stridendo, i cani che abbaiano, i camion che sgasano fumo acre. Asfissiati dall’ossido di carbonio, finiti con una mazza, spariti. Solo l’odore di carne bruciata, quello si sente, la mattina dopo.

Migliaia di antifascisti, ma quanti? 4.000, 5.000? Hanno un nome, una faccia, una vita? La maniacale contabilità nazista ha permesso di individuare i nomi e i percorsi di centinaia di migliaia di persone deportate nei campi d’Europa; per la Risiera no, non c’è nulla, tutto saltato in aria nel camino distrutto la notte del 29 aprile con i partigiani alle porte. Di pochi si sa, di Pino Robusti si leggono le righe scritte su fogli improvvisati ai genitori, a Laura. Qualche biglietto, un paio di lettere ritrovate e custodite, rimaste per il dopo, tracce di vita perché ne resti memoria. L’ultima lettera, quella più difficile, a Laura, il 5 aprile 1945 e il giorno dopo sarebbe stato ucciso.

Così piena di tenerezza, aggrappata al sogno di quell’amore violato e i saluti e le raccomandazioni e i baci infiniti. Ricordi del passato assieme e il futuro di lei «sii forte, onesta, generosa, inflessibile». Di Pino resta lo sgomento di quelle ore: «Sapere che da un’ora all’altra tutto può finire, essere salvo e vedermi purtroppo avvinghiato senza scampo dall’immane polipo che cala nel baratro. È come divenir ciechi poco per volta». Un amore finito che resta eterno in quelle esili figure che si abbracciano ancora oggi in piazza Oberdan, indifferenti al rumore degli autobus e delle macchine, soli eppure con ognuno di noi a costruire memoria.