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Auschwitz

Varsavia, 6 dicembre 1970. Il cancelliere della Germania Ovest Willy Brandt (Spd) in ginocchio davanti al monumento agli eroi ebreiVarsavia, 6 dicembre 1970. Il cancelliere della Germania Ovest Willy Brandt (Spd) in ginocchio davanti al monumento agli eroi ebrei – Ap

Dall'archivio L'articolo di Rossana Rossanda sul manifesto del 28 gennaio 2005 sulla Giornata della Memoria

Pubblicato 10 mesi faEdizione del 28 gennaio 2024

Quando Willy Brandt vi si recò, cadde in ginocchio senza parlare – lui che non c’entrava per nulla, ma era il leader della Germania e questa piegava le ginocchia nel gesto estremo di riconoscimento di colpa – più che di richiesta di perdono, perché ci sono colpe di cui non si può essere perdonati.

Non so se lo farà anche Berlusconi, se gli verrà in mente che l’Italia ha partecipato della stessa responsabilità. Né so immaginare la sua lustra persona nei passaggi fra quelle baracche e i loro fantasmi.

Che anche l’Italia debba chinare la testa non è venuto in mente neanche a Fini quando ha ammonito qualcun altro di non scordare la Shoah – sarebbe stato più convincente se fra coloro che la minimizzavano, fino a una decina di anni fa, avesse messo onestamente anche se stesso e il suo mentore Almirante. Oppure se avesse taciuto.

Al dolore si addice il silenzio e la riflessione. A questo dovrebbe servire la giornata della memoria. Soprattutto per i più giovani che della seconda guerra mondiale hanno una vaga percezione, mentre sanno tutto dello sterminio degli ebrei ma banalizzato dall’essere diventato immagine corrente e oggetto di fiction in tanti e pur utili film.

Certo, quella che corre è una percezione diversa da quella che ne ebbero quelli della mia età. C’è una generazione, di ebrei e non ebrei, che quella memoria non se la potrà mai togliere di dosso.

Perché la seconda guerra mondiale e questo suo orrore in essa non finirono il 25 aprile né alla firma della resa finale. Anche se di ogni guerra ciascuno che non abbia fatto parte d’uno stato maggiore conosce soltanto quel poco che gli sta nell’orizzonte (e in guerra l’orizzonte si restringe, poco ci si dice, al più si sussurra fra paura e speranza) della dimensione della seconda guerra mondiale ognuno seppe singolarmente poco. Apprese quando finì, quella guerra continuò a rivelare per anni la sua estensione e i suoi abissi. Sgocciolò sangue su di noi per tutta l’estate del 1945, nella quale sui giorni di sollievo o di festa caddero successivamente la notizia delle atomiche su Hiroshima e Nagasaki e le prime fotografie dei lager.

L’atomica ci mettemmo un pezzo a concepirla in concreto. Quanto ai campi, io avevo veduto gli impiccati a Fondo Toce e i corpi dei fucilati ammucchiati a Milano, e credevo di sapere tutto, quando mi arrivarono le prime istantanee di Buchenwald, le fosse di corpi diventati strame, fradici come foglie marce confusi l’uno nell’altro, ossa pelle e orbite di volti senza più lineamenti.

Neppure mi resi conto subito che la maggior parte di essi non erano combattenti che avevano messo in conto di finire sanguinanti sotto terra, non erano i miei compagni comunisti e resistenti, erano ebrei uccisi perché ebrei – non per quel che avevano tentato di fare ma per quel che erano o erano classificati.

Perché gli ebrei e, seppi dopo, anche gli zingari vennero sterminati come una specie animale infetta. Il sogno che ossessiona il deportato, come scrive Primo Levi, è che torna a casa, racconta e nessuno gli crede. Perché quel che gli è successo è impensabile.

Nessuno di noi poté vedere per anni quei forni crematori simili a locomotive, quei cortili circondati dalle palizzate di ferro spinato ed elettricità, gli osceni becchi di doccia delle camere a gas, senza sentirsi messo in causa come essere umano. Si era andati oltre ogni limite immaginato. E non per caso, per decisione di molti e per un esercito di esecutori tranquilli. E sull’umanità questo si riversava, sua terribile proiezione.

Oggi qualcuno dice che prima non si sapeva e dopo la guerra non si volle sapere. Non credo, anche se certamente fu la messa in causa dell’esistenza di Israele in Palestina e la dura risposta della guerra dei sei giorni a riportare con una forza mai avuta la memoria degli ebrei sulla scena del presente, ad allargarla e approfondirla.

Non c’era stata censura, c’era l’insopportabilità di un passato così vicino, dell’aver visto qualcuno portato via in camion da casa, di notizie e timori che arrivavano – e questa è una percezione che neanche il processo di Norimberga, neanche quello ad Eichmann, neanche i fiumi di testimonianza che escono oggi possono rendere come la sentimmo allora. Non tutto quel che è stato vissuto si può riprodurre.

Ed è forse un bene che sia così. Che tutti sappiano della Shoah come di una delle tragedie più atroci che sono state possibili per trarne un insegnamento decisivo.

Capisco che non può essere una pagina di storia per chi è uscito da quell’inferno. Ma penso che Hannah Arendt sbagli quando dice: «Quel che una volta è stato pensato e fatto, è destinato a ripetersi». Altre disumanità stiamo compiendo, perché l’inventività degli uomini nel distruggere è infinita. E potente la tentazione di uccidere chi non appartiene ai tuoi.

Ma un massacro degli ebrei perché ebrei, di un popolo perché è un popolo, non potrà più avvenire nel silenzio del mondo. Qualche volta la storia fa anche una passo indietro e l’impensato torna a essere impensabile.

Almeno nel giorno della memoria lasciamo le miserie in cui inciampiamo tutti i giorni e inginocchiamoci tutti perché sia così.

Questo articolo di Rossana Rossanda è stato pubblicato sul manifesto del 28 gennaio 2005

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