Non c’è città a vantare un minimo sindacale di politiche culturali che per il Giorno della Memoria non metta in piedi un concerto con quello che ormai può essere visto come un «repertorio»: le musiche scritte da compositori e musicisti nei giorni dei lager. In analogia con il cinema, che ha prodotto un filone in grado di raccogliere un vasto consenso, è nata l’esigenza di rivalutare la musica.

Nel settore, un pioniere come il pianista, compositore e studioso Francesco Lotoro in trent’anni di lavoro ha catalogato e a volte riscoperto circa ottomila opere, senza badare al genere, dalla sinfonia alla melodia gipsy. La musica scritta nei campi di concentramento è un universo che ci interroga sull’importanza dell’arte in condizione di deprivazione, dove la speranza è perduta ma l’uomo conserva la volontà di creare il bello.

Nei campi morirono autori di musiche popolari ebraiche, un nutrito gruppo di compositori classici (tra gli altri Erwin Schulhoff, Hans Krása, Pavel Haas, Gideon Klein, Rudolf Karel, Jozef Kropinski), musicisti Rom e jazzisti.

Il fatto che Theresienstadt (Terezín), dove ha vissuto e sofferto la maggior parte dei personaggi citati nell’elenco, sia diventata sinonimo di «musica della Shoah» è giustificato dal livello della vita musicale dentro il campo, un caso eccezionale nel sistema nazista. In questa città-lager di provincia, la musica si sviluppa come avrebbe potuto farlo in un centro internazionale. A fianco di cori, gruppi di cabaret, orchestre classiche, si faceva anche critica musicale e si organizzavano rassegne di nuovi autori, come dimostra l’operato di Viktor Ulmann. Si potevano ascoltare sinfonie e musiche da camera, brani religiosi, opere. Un bar proponeva musica popolare e swing.

A Terezín i compositori potevano disporre di una vasta equipe di performer. Molti artisti imprigionati cercavano di conservare la propria identità artistica. I più bravi erano esonerati da lavori pesanti, ottenevano piccoli benefici (alloggi migliori, provvigioni extra) e fino all’autunno 1944 erano salvaguardati dalla deportazione ad Auschwitz.

L’obiettivo consisteva nel presentare al mondo Terezín come insediamento ebraico modello. L’impegno dedicato a questa strategia diversiva ebbe successo e nell’estate del 1944 una delegazione della Croce Rossa in ispezione si trovò di fronte a un villaggio esemplare. I reclusi suonarono un’aria di Verdi e l’opera per bambini Brundibárdi di Krása. La rappresentanza poté persino udire il jazz illegale dei Ghetto Swingers.

Venne girato un documentario propagandistico (è in rete, agghiacciante): Ein Dokumentarfilm aus dem jüdischen Siedlungsgebiet.

Nonostante tutto vari artisti credettero all’illusione del «ghetto modello». Aggrapparsi all’arte impedì loro di comprendere che venivano sfruttati come paravento. Eric Vogel, musicista swing sopravvissuto al campo, commentò: «Non pensavamo che i nostri oppressori ci vedessero come uno strumento in loro possesso. Eravamo ossessionati dalla musica ed eravamo felici di poter suonare il nostro amato jazz».

Non era solo propaganda: nelle performance negli ospizi o per i bambini si intuisce la missione psicologica e culturale della musica nel ghetto. Le note diventano un mezzo per preservare l’identità dei musicisti e di chi li ascolta, servono a sopravvivere e dare speranza.

«RITMI DEGENERATI»

La funzione propagandistica non va comunque sottovalutata nelle sue svariate implicazioni. Lo spietato gerarca Joseph Goebbels, braccio destro del Führer, ministro della Propaganda del Terzo Reich, con la cultura fomentò odio e utilizzò il jazz in chiave anti-inglese. Eppure la musica sincopata, come veniva definita all’epoca, rappresenta la nemica America ed è patrimonio dei neri, considerati «razza subalterna» ed è stata proibita dal regime. Il jazz per i nazisti è Entartete Musik, musica degenerata. Hitler, nel Mein Kampf cataloga i neri come inferiori.

Le leggi razziali del 1935 decretano che non è tedesco chi ha antenati di sangue ebreo o nero. Nonostante i presupposti del regime (e del suo ministero in particolare), Goebbels fonda nel 1940 una band swing, Charlie and His Orchestra. La compagine nasce dal nulla, per ordine politico, con lo scopo di diffondere nell’etere musica intrigante e dare un tono alla stazione radiofonica tedesca anti-Gran Bretagna – che trasmette in lingua inglese – Germany Calling, martellando l’Inghilterra con la più subdola propaganda, che vuole contrabbandare la «superiore» cultura nazionalsocialista.

Il jazz è il passepartout perfetto per infiltrarsi nelle retrovie nemiche meglio dei razzi V2 o delle bombe. E chi ingaggia Goebbels per la sua band? Eccellenti suonatori, tra i quali ebrei, omosessuali e altri perseguitati.

Il gruppo, capeggiato da Karl Schwedler, tra il marzo del 1941 e il febbraio del ’43 avrebbe inciso oltre 90 celebri successi jazz con le nuove liriche predisposte dal Propagandaministerium. Il successo è ampio: la trasmissione raggiunge sei milioni di ascoltatori giornalieri in Inghilterra.

Questo fatto storico reale, ma poco noto, costituisce l’ossatura del romanzo dello svizzero Demian Lienhard, Mr. Goebbels Jazz Band (Bollati Boringhieri, pp. 212, euro 18). Utilizzando come sfondo questo spunto rimasto a piè di pagina nei libri di storia, l’autore ricama con mano ironica la vicenda dei protagonisti di questa band e di chi vi ruota intorno. La sottigliezza della propaganda nazista diventa una normale tattica bellica. I lettori si trovano immersi in club fumosi, problemi esistenziali, giochi di potere all’interno degli uffici governativi e poi la radio, le prove della band, i musicisti, ciascuno con la propria storia e personalità.

Sulle onde radio di Germany Calling, la band Charlie and His Orchestra accompagnava in musica il racconto del mondo dal punto di vista anti-inglese grazie a un presentatore radiofonico dal perfetto accento british, William Joyce, il personaggio più curioso del racconto, un nazista inglese espatriato in Germania per necessità e legato alla Mr Goebbels Jazz Band che venne giustiziato per alto tradimento al termine della guerra ma che fino all’ultimo aveva svolto un lavoro propagandistico eccellente.

Per la radio conta solo il risultato: si assumono musicisti ebrei, omosessuali, stranieri e si pagano loro alti salari. Non solo quindi questi jazzisti ricevevano uno stipendio dallo stato che proibiva loro di lavorare ma era anche un modo di evitare la guerra.

L’appartenenza alla band garantiva una sorta di immunità: i tedeschi non dovevano andare al fronte, gli ebrei e gli omosessuali non erano perseguitati. Lavoravano da privilegiati per il regime che li voleva morti.

L’altro protagonista del libro è lo scrittore Fritz Mahler, un personaggio inventato ex novo, incaricato di raccontarne le vicende in un libro promozionale. La storia del gruppo jazz, dei musicisti e dei funzionari del servizio di propaganda passa spesso attraverso il suo sguardo. L’espediente utilizzato è quello del manoscritto ritrovato, un trucco vecchio che permette all’autore di entrare nella storia con occhio fresco, non legato al pesante giudizio che noi contemporanei diamo inevitabilmente della Germania nazista.

AL SERVIZIO DEL POTERE

Mahler diventa un pennivendolo al servizio del potere (quanti ce ne sono anche oggi in giro per il mondo?) e non lo giudichiamo come uno scrittore collaborazionista di uno dei regimi più efferati della storia. È pigro, un po’ svanito; vede il mondo con gli occhi del 1945 e l’autore in qualche misura ci si identifica (e obbliga il lettore a specchiarsi in lui).

L’orchestra voluta da Goebbles va celebrata con tutti i mezzi, anche con la parola scritta. Goebbels, spregiudicato come sempre, ha piegato al suo volere l’odiato jazz e la lingua inglese per veicolare i messaggi desiderati. Il gerarca credeva che la funzione della radio fosse duplice: plasmare gli ascoltatori con concetti nazisti (in patria), seminare dubbi e zizzania (all’estero).

Goebbels, un truce ideologo, agirà in modo pragmatico. Voleva vincere una guerra, ad ogni costo. Trenta milioni di ascoltatori alla settimana erano un bottino umano da coltivare. Come recita un motto di Confucio: «Non importa di che colore è il gatto, l’importante è che prenda i topi».

Nel libro troviamo un bel dialogo tra strateghi del governo nazista su come va condotta la comunicazione via radio nelle terre nemiche. Per il primo: «Bisognava far spazio a un’orchestra interna, un cosiddetto esercito ombra musicale che fosse in grado di bombardare i britannici giorno e notte con la più raffinata propaganda jazz». Un secondo dubita che sia quella la soluzione: «Non si rendeva migliore servizio alla Germania (e soprattutto all’Inghilterra!) mandando in onda sul canale Händel, Beethoven e Mozart? Di fronte a quella superiorità musicale, i britannici sarebbero stati per forza costretti a deporre le armi». Interviene allora il gerarca più importante: «Sciocchezze, baggianate, idiozie, ma va là. Forse gli inglesi aspiravano a essere loro fratelli, ma erano il fratello alcolista, litigioso, viziato e rammollito che conosceva solo la cultura dei bassifondi. Dare musica classica all’Inghilterra era come dare perle ai porci, mentre il jazz era per l’appunto roba da maiali…».

Questo scambio di battute mostra come il razzismo influisca anche sulle scelte strategiche. Il jazz è utilizzabile in maniera tanto cinica perché viene considerata musica oggettivamente inferiore.

Anche i pensieri dello scrittore nel 1943 mostrano il suo lato più cinico che l’autore mette in rilievo nonostante la simpatia verso il personaggio. «Supponendo che il jazz fosse effettivamente messo ancora più al bando (…) supponendo anche che i musicisti venissero perseguitati con veemenza ancora maggiore, supponendo infine che l’orchestra di Charlie venisse sciolta o quantomeno alcuni dei suoi membri arruolati, arrestati, rispediti in Olanda, Italia, Svezia – che cosa ne sarebbe stato di lui, si chiede Mahler (…). Be’ nel migliore dei casi avrebbe perso alcuni dei suoi personaggi, pensa, nel peggiore dei casi il soggetto del suo romanzo sarebbe venuto meno del tutto, il suo scritto avrebbe perso ogni senso». L’autore Demian Lienhard ci porta a riflettere sul male provocato dal nazismo anche attraverso le opere d’arte e le tensioni che le attraversano.

Il romanzo procede caracollando avanti e indietro nel tempo tra dialoghi confusi e atmosfere fuori fuoco. Come la vita. La consapevolezza dell’autore si riversa su Mahler che come scrittore si pensa alla stregua di un semidio greco onnipotente e invece si ritrova a essere nient’altro che «un pietoso domatore di circo, uno a cui da tempo è sfuggito il controllo sull’orda caotica dei suoi animali, un misero dilettante che, col suo cilindro unto e bisunto e un abito sformato da tempo, non sa più come incantare il suo pubblico».

Non è peregrino pensare che il jazz abbia una vitalità incontenibile per uno scrittore di regime e che i musicisti non si lascino inserire nel quadro prefissato, impegnati a suonare qua e là e mettere insieme una vita decente in tempo di guerra e in un paese per loro sempre più ostile.

RISCRITTURE

Uno dei siparietti più belli arriva quando l’orchestra interpreta Goody Goody. Mahler torna indietro nel tempo, quando il brano nella versione di Benny Goodman era il successo del 1936 e «veniva suonata in ogni club degno di questo nome un po’ dappertutto tra St. Moritz e Gstaad». Invece nella riscrittura nazista l’amante deluso protagonista del brano che si consola cantando blues e ballando swing tutta la notte è ossessionato da un personaggio meno amoroso, il traditore, bugiardo e odiato Winston Churchill. Gli esempi di questo genere di propaganda che stravolge il senso delle canzoni sono diversi: è agghiacciante e straniante ascoltare l’allegro motivetto Makin’ Whoopee, un vecchio successo dei ruggenti anni Venti portato al successo in un musical da Eddie Cantor.

Il testo originale era sbarazzino e ricco di doppi sensi, ma quello preparatato per Charlie and His Orchestra è un’invettiva contro ebrei, capitalisti americani, impero britannico e comunisti (si trova facilmente in rete, se si è curiosi). Sono dischi, ben suonati, swinganti fin quando il cantante non inizia con discorsi razzisti, antisemiti, anti-americani. Improvvisamente ci troviamo di fronte a un falso, la musica che abbiamo amato si volge in incubo, l’inconsistenza dei testi pensati per numeri «leggeri»di commedie musicali assume un passo marziale da ministero della guerra e si tramuta in un rovesciamento distopico.

Melodie ascoltate in momenti spensierati diventano orrende pantomime, l’alterazione del senso si spinge ai limiti, come l’uso di Beethoven fatto da Kubrick in Arancia meccanica.

Il jazz è un simbolo conteso, fin dalla sua origine. Figuriamoci in un momento tragico come la seconda guerra mondiale e con il medium radiofonico di mezzo, non solo in Germania. Fra il ’43 e il ’45 nell’Italia spaccata in due dalla guerra una cosa sembra unire il paese devastato: le stazioni radio Eiar in mano alla Repubblica Sociale al nord, le radio libere e quelle degli eserciti alleati al sud, quelle partigiane clandestine, Radio Tevere con la sua contro-propaganda fascista simile a quanto fa Germany Calling… Tutte trasmettono jazz.

Come ha scritto Adriano Mazzoletti ne Il jazz in Italia: «Mentre la nazione era squassata: i bombardamenti a tappeto, la guerra civile (…) gli italiani che avessero avuto tempo, voglia e possibilità di sintonizzarsi sulle radio attive in quel momento avrebbero ascoltato solo ed esclusivamente jazz». Potenza del medium.

Si possono fare altri esempi. Radio Londra, il cui motto è «A guerra totale propaganda totale», si rivolge in madrelingua a ben 48 paesi diversi e ci lavorano tremila persone. Non possiamo però disconoscere il maligno primato ai nazisti, pionieri nella missilistica come in altre tecniche guerresche: questo tipo di utilizzo del jazz a fini propagandistici è farina del loro sacco.

Voice of America e i tour internazionali del Dipartimento di Stato Usa faranno tesoro di quest’arma in chiave anti-sovietica durante la guerra fredda, ma negli anni in cui i nazisti già la applicano con successo gli americani considerano il jazz come mero supporto alle truppe, svago per tenere alto il morale con i dischi e con i concerti per l’esercito.

Sarà l’entusiasmo dei popoli liberati al passaggio dei soldati americani a decretare il successo del boogie-woogie o dello swing delle big band e a far capire come la loro musica nativa sia apprezzata anche nel resto del mondo come sinonimo di libertà e a prenderla in considerazione come «arma culturale» in chiave propagandistica.

Goebbles con folle lucidità aveva già visto tutto e si era servito della musica «negroide» ma così facendo in un certo senso si era arreso al nemico fin dal primo disco dei Charlies nel 1941.