Gerbrand Bakker, vuoto interiore osservato a pelo d’acqua
Alias Domenica

Gerbrand Bakker, vuoto interiore osservato a pelo d’acqua

Scrittori nederlandesi «Quelli che restano», da Iperborea
Pubblicato circa 2 ore faEdizione del 6 ottobre 2024

Al di là di un apprezzato impiego nel salone di barbiere ereditato dal padre, e a parte l’eccitazione ricavata massaggiando colli e mascelle maschili, per il protagonista del nuovo romanzo di Gerbrand Bakker, Quelli che restano (traduzione di Elisabetta Svaluto Moreolo, Iperborea, pp. 320, € 19,00), la massima fonte di realizzazione consiste nelle sue nuotate in piscina, dove la madre lo ha obbligato ad assistere un gruppo di giovani disabili, che sebbene goffi accendono in lui un incongruo appetito sessuale.

Anche quando lavora nella bottega di barbiere, durante un taglio di capelli o uno shampoo, in un gioco fugace di sguardi allo specchio, abborda nuovi e vecchi amanti, e quella scintilla gli provoca poco più di un diversivo breve e dimenticabile nel moto uniforme della sua routine. Le vaghe perturbazioni della quotidianità di Simon lasciano pensare a una vicenda giocata su gesti e pensieri di piccolissima entità. E forse anche l’elemento della piscina ha un posto che va al di là della scenografia, perché vi si riverbera un mondo – quello di Bakker – osservato a pelo d’acqua, di cui non si vede il fondo, in cui i silenzi sono più significativi dei dialoghi, e entrambi sembrano rimandare a un grande vuoto interiore.

Addentrandosi in questo ritmo letargico, nulla farebbe pensare che la struttura del romanzo, anziché assecondare a oltranza l’inconcludente lentezza della prosa, si avviti di colpo, rivelando nella parte centrale del vortice un nucleo rimasto fino ad allora nascosto dove tutto, letteralmente, precipita. Ci si arriva come se l’approdo fosse casuale, trascinati da una scrittura calma e a tratti divertita, connotata da quella disinvoltura che è la cifra di Bakker.

Il padre di Simon è scomparso prima che lui nascesse, partito senza preavviso una domenica del 1977. Da Tenerife, dove si trovava assieme al giovane apprendista del suo negozio, si era imbarcato su un volo Klm al mattino, e l’aereo si era scontrato con un apparecchio americano, provocando uno degli incidenti aerei più tragici di sempre. Il panico dei due uomini a bordo dell’aereo è descritto come una sensazione di vuoto pulsante, che peraltro invade saltuariamente le pagine, riuscendo a rompere la patina fragile di convenzioni, gesti, omissioni, rigidità che Bakker è abile nel restituire: «Cornelis lo guarda ed è come se vedesse un perfetto sconosciuto. Chi è quel ragazzo? Sì, sa chi è, sa che si chiama Jacob e che sta facendo un apprendistato con suo padre, ma come ci è finito lì insieme a lui? Cosa voleva dire poco prima in aereo quando gli ha detto: ‘Guardami una buona volta’?».

Il cadavere di Cornelis, questo il nome dell’uomo, non era mai stato identificato, e dunque il figlio, che intrattiene con il contatto fisico un rapporto assai ambiguo, di curiosità e disagio, trent’anni dopo si mette sulle tracce di quel corpo mancante.

Bakker deve aver scelto di pescare dalla cronaca l’incidente di Tenerife perché gli forniva il pretesto per concentrarsi sulla fretta della cultura olandese nel respingere la morte negli archivi, e comunque nel renderla un elemento marginale, tant’è che nel romanzo non solo i vivi si tengono lontani dal suo orizzonte, ma – e sta qui la trovata più spiazzante – anche i morti. Peraltro, i lutti collettivi inducono curiosità, e a lasciarli inespressi è come se – per Bakker – si sprecasse una opportunità. Perciò, l’autore rende inevitabile al suo personaggio cedere alla tentazione di indagare un dramma che nella storia nazionale olandese non aveva trovato sufficiente attenzione. Riesumato l’incidente, Bakker mostra fra l’altro come il coinvolgimento dell’opinione pubblica e delle stesse famiglie delle vittime si sia rapidamente ridotto alla commemorazione. L’indagine cui si dedica Simon è al tempo stesso una occasione per addentrarsi nella perdita e un gancio cui appendere la rivitalizzazione di profili psicologici appena abbozzati nella loro immersione nella routine, e perciò più vulnerabili alle minime increspature dell’esistenza.

A differenza dei romanzi in cui il trauma, vero o fittizio, dissotterrato o ancora latente è ovunque, qui appare circoscritto all’incidente, e solo procedendo lungo una trama apparentemente gratuita e sfilacciata inizia a emergere in filigrana, fino a proporsi quale motivo centrale. L’intento velatamente parodico che è sempre in agguato dietro la descrizione dei personaggi sembrerebbe servire a Bekker per portare a galla, nella sua forma intelligente e stralunata di minimalismo, una sorta di sommerso generazionale, che fa sì che tre barbieri – il nonno Jan, il padre Cornelis e il figlio Simon – rivelino quali possibili equivoci si nascondano in un destino comune.

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