Il caso Mikael: nato e vissuto in Olanda, a 11 anni il governo lo espelle in Armenia
Migranti Wilders cerca di capitalizzare i consensi di destra affidandosi a burocrazia e sentenze contro bambini radicati nel Paese
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Mauro, Lili e Howick, Hayarpi, Amir, Nemr e ora Mikael: gli olandesi li conoscono per nome i bambini richiedenti asilo che lo stato voleva espellere; i loro casi diventati di pubblico dominio e sullo sfondo lo slogan «Frontiere chiuse» (grenzen dicht) e l’obiettivo di pochi rifugiati, negli ultimi 15 anni la politica d’accoglienza di fatto del paese. Quelle storie sono state l’unico bagliore di umanità ad aver fatto vacillare numeri, statistiche e la ferocia di annunci e proclami.
Bambini o minori già ben radicati nei Paesi Bassi dopo aver trascorso anni, insieme alle famiglie, tutti impantanati nello spazio senza tempo dei richiedenti asilo, hanno goduto a lungo di una sorta di protezione e trattamento di favore rispetto al rigore assoluto che il paese, guidato da coalizioni di centro-destra di Mark Rutte per oltre un decennio, pretende sulla questione dei rifugiati. Raccolte di firme e appelli, in passato, avevano prodotto modifiche alla normativa, con l’introduzione di due sanatorie per i minori richiedenti asilo che avevano trascorso molto tempo nei Paesi Bassi, i Kinderpardon, nel 2013 e nel 2019, e in alcuni casi interventi in extremis del governo erano giunti a procedure di espulsione già in corso. Ma oggi tira un’altra aria e l’ennesimo caso, la vicenda di Mikael (11 anni) e della madre Gohar, originari dell’Armenia, probabilmente non sarà a lieto fine perché la maggioranza nazionalista e xenofoba che ha agguantato la guida del paese, attraverso il Pvv, il partito di estrema destra di Geert Wilders, non intende lasciare spazio per alcun atto di umanità.
Mikael, nato ad Amsterdam, ha la sfortuna di essersi trovato a rappresentare il primo test per la neo ministra Marjolein Faber responsabile del dicastero di asilo e migrazioni: fedelissima di Wilders, hardliner contro i rifugiati, è una fiera sostenitrice della teoria della sostituzione etnica. Nonostante una petizione per la causa di Mikael e della madre abbia raccolto 100mila firme, il caso abbia ottenuto l’importante sostegno dalla sindaca di Amsterdam e un corteo organizzato dalla scuola del bambino abbia attirato centinaia di persone, la ministra è inamovibile: una decisione (di un tribunale) è una decisione e non c’è nulla che possa fare, ha detto.
A darle man forte anche Dick Schoof, premier «tecnico» del governo di Wilders, ed ex direttore del servizio immigrazione che si è limitato a un’alzata di spalle: caso complicato ma ho fiducia nelle istituzioni nei Paesi Bassi, ha tagliato corto. La decisione a cui si riferisce è la sentenza del Raad van State (Consiglio di Stato), massimo organo di giustizia amministrativa nei Paesi Bassi, che ha ritenuto fondato il ricorso del ministero della Giustizia contro una sentenza che annullava l’espulsione di Mikael: secondo loro, la madre del bambino è colpevole di non aver collaborato alla sua deportazione. Nulla di nuovo nelle parole dei giudici ma, in passato, pur dopo mille appelli e pressioni, il governo interveniva per rimediare ai danni che la sua burocrazia rischiava di causare, mettendo una toppa con permessi di soggiorno per motivi umanitari.
La neo ministra, smentita da pareri legali e dalla stampa olandese, sostiene di non avere più quella facoltà. In realtà, come insiste Defence for Children, in Olanda la più autorevole ong per i diritti dei minori, la decisione di non fermare la deportazione di Mikael, che parla solo olandese e non ha mai messo piede in Armenia, è esclusivamente politica: il governo avrebbe tutti gli strumenti. E invece, per mostrare il nuovo corso, l’estrema destra brandisce come un’arma la burocrazia e, per mantenere il momento di grazia nei sondaggi, ritiene accettabile sacrificare un bambino di 11 anni.
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