Nei giorni scorsi il manifesto ha dato spazio alla modifica del testo della legge contro la corruzione, presentata di recente dal governo di Viktor Orbán che renderebbe possibile sporgere denunce anonime per tutelare un non meglio definito “stile di vita ungherese”.

Questa iniziativa rientrerebbe nell’impegno governativo ottenere lo sblocco dei fondi europei che, nel caso di Budapest, sono stati congelati per via della corruzione generalizzata attribuita al sistema di potere concepito e orchestrato da Orbán. Per essere più precisi occorrerà far presente che l’Ue ha bloccato i 5,8 miliardi di euro del PNRR e il 65% del fondo di coesione per l’Ungheria proprio per i rischi legati alla pratica della corruzione e alle violazioni dello Stato di diritto da parte delle autorità governative. Come sappiamo il governo Orbán critica da tempo ogni condizionalità legata all’erogazione di questi fondi. Anzi, per meglio dire la avversa e reclama il diritto del paese a ottenerli in quanto membro dell’Unione.

Secondo il ministro degli Esteri Péter Szijjártó, capo della diplomazia ungherese dal 2014, “dal punto di vista finanziario il congelamento dei fondi europei non è un problema, ma dà comunque luogo a una situazione frustrante”.

Szijjártó ha motivato questa sua recente affermazione al canale televisivo Hír TV facendo riferimento alla crescita economica del paese, che l’anno scorso sarebbe stata del 4,6%, e allo sviluppo degli investimenti. L’esecutivo che rappresenta ha sempre esaltato meriti e risultati della sua politica economica che, però, anche quando mostra cifre come quella di cui sopra, mostra contraddizioni e fragilità a un esame attento e critico. Così, ad esempio, gli analisti sottolineano il fatto che, per supplire ai fondi mancanti, il governo ungherese ha dovuto far ricorso a prestiti disponibili sul mercato finanziario a prezzi notevolmente maggiorati, e questo ha contribuito in modo rilevante all’indebitamento del paese.

Problemi come questo passano in secondo piano, almeno agli occhi di quella parte di popolazione meno attenta e informata, grazie alla propaganda e a quel po’ di aiuti sociali concepiti dal governo che secondo gli avversari politici sono solo fumo negli occhi. Detto questo, i fatti mostrano che in realtà il paese non se la passa poi così bene sul piano economico e la parte di popolazione in sofferenza aumenta.

Ma torniamo al tema di fondo di questo scritto: Szijjártó afferma che il fatto di dover rinunciare ai fondi Ue non è un problema in termini finanziari – lasciando così intendere che l’economia ungherese non dipende da essi – ma una questione di principio. Precisa che questi fondi spettano di diritto all’Ungheria ma che sono bloccati solo per motivi politici. Il che è “inaccettabile”.

A suo avviso, che corrisponde a quello di tutto l’esecutivo e dei suoi sostenitori, è che a Bruxelles non piace il modo in cui Orbán e i suoi governano il paese. Non le piace il fatto che il premier e i suoi fedelissimi respingano il federalismo e vogliano aumentare le competenze nazionali. “Siamo un governo cristiano – dichiara con orgoglio reiterando una formula tipica del sistema di potere che rappresenta – un governo patriottico di destra che non piace per niente al mainstream europeo”.

Anche Varsavia ha le sue rimostranze da fare in questo senso. Divisa da Budapest sul tema della guerra in Ucraina, si ritrova insieme a essa nel rifiuto dei vincoli legati al versamento dei fondi Ue, e non solo in questo, quando si tratta dei rapporti con Bruxelles. Ungheria e Polonia vantano, poi, un tradizionale legame di amicizia. Il congelamento dei fondi riguarda quindi anche il paese governato dal PiS, soprattutto per motivi riguardanti politiche che secondo i vertici Ue sono lesivi dello Stato di diritto. Il braccio di ferro continua.