Nella malinconica Europa di questo primo quarto di secolo la Francia è quella che da più tempo cerca di tenere a bada «la minaccia estremista»: i Le Pen sono seri pretendenti all’Eliseo da decenni. Da prima, per esempio, che nascesse la scrittrice e fotografa Emilienne Malfatto, nata nel 1989, autrice di sorprendenti romanzi (in Italia da Sellerio) nei quali dà voce a narratori in prima persona (latinoamericani, mediorientali) lontanissimi da se stessa per lingua e cultura.

In questo la letteratura è nemica giurata della politica: rifiuta qualunque criterio di identità, parola che anzi disprezza. È su questo che la politica invece rinnova a ogni stagione la sua produzione di idiozia: necessita del discorso identitario come dell’ossigeno. A volte si sente dire che un paese è «in crisi di identità», come se questo dovesse essere necessariamente un problema, ed è il discorso che di solito cavalca la destra.

Quello dell’identità nazionale è un tipico falso problema creato dalla destra, in ogni sua declinazione. Il Rassemblement national sta cavalcando magistralmente l’onda, che esso stesso ha contribuito a creare, ma la destra «classica» ha ampiamente messo sul tavolo questi argomenti.

Faccio molta fatica a capire questo genere di paura: per me l’identità (e a maggior ragione la cosiddetta «identità nazionale») è un concetto astratto e pericoloso perché non fa che cristallizzare paure. D’altronde è un ottimo paravento per altri, decisivi problemi che la destra non ha gli strumenti per affrontare.

Le ridicole polemiche sul «burkini» o sul velo occupano le menti e lo spazio politico e mediatico, e sono solo una cortina di fumo per distogliere l’attenzione con polemiche di nessuna rilevanza. Penso invece che l’identità sia fatta di frammenti, e soprattutto sempre in evoluzione. Meno ci preoccupiamo di questo, migliore sarà la società. È ciò che le destre si rifiutano di accettare: l’identità è in continuo divenire, e questo è un bene, è una cosa naturale. Un Paese che non evolve è un Paese che sta morendo.

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Dopo aver alimentato un malcontento sociale diffuso, a suon di ricette ultra-liberiste e tagli brutali della spesa pubblica, Macron non oppone alcun discorso politico alla destra, e fa piuttosto appello a una indefinita, generica visione «repubblicana». Di recente ha evocato la possibilità che i francesi vadano a combattere contro la Russia… Lei viaggia molto, e nel suo lavoro ha raccontato diversi scenari di guerra, con i suoi orrori, e la profonda rabbia e tristezza che da essi esalano. Vede un paese più triste del 2017, l’anno dell’ascesa al potere di Macron?

È difficile per me rispondere a questa domanda perché non vivo stabilmente in Francia, e non era così già nel 2017. Però anch’io vedo il mio Paese teso, carico di frustrazione e rabbia. E, purtroppo, anche di molta paura. È una brutta combinazione che rende le persone estremamente vulnerabili.

Ci si può opporre alla destra solo coltivando un Paese che vada in un’altra direzione, dove lo Stato non abbandona il suo sistema sociale e le sue periferie, dove tutti i cittadini sono veramente uguali, dove la violenza della polizia non è così diffusa… La Francia ha un bel motto, liberté, égalité, fraternité. Forse è giunto il momento di ricordarlo.

Uno degli argomenti di chi voterà per Bardella è «non abbiamo mai provato, proviamo». Mi viene in mente l’Argentina: vivevo a Buenos Aires al momento delle elezioni che hanno portato Javier Milei al potere. Anche lì la gente diceva «non ci abbiamo mai provato prima». Da allora, Milei ha in parte distrutto le conquiste sociali e democratiche e l’Argentina non può che aspettarsi altri quattro anni di gravi, gravissimi danni. A questa argomentazione corriva dobbiamo rispondere ricordando le origini del Rn e la sua vocazione profondamente razzista, antisemita e antisociale, nonostante quello che il partito vorrebbe farci credere.

Tra gli elettori della sua generazione il voto andrà in grande maggioranza al Nuovo fronte popolare. Come mai, secondo lei, un progetto politico così coinvolgente viene definito un «pericolo» da molti nello schieramento macronista?

Anche il mio voto andrà al Nfp. Alcuni sostengono che il programma comune sia «di estrema sinistra», ma è una retorica agitata come uno spaventapasseri brandito a distanza, con il coro dell’Armata Rossa sullo sfondo. È semplicemente un programma di sinistra, piuttosto moderato, una proposta equilibrata e convincente, a mio avviso la migliore del momento: un po’ di stato sociale, e un po’ di pacificazione.

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L’Europa è un continente fondato storicamente sul razzismo. La Francia, con la sua complessa storia coloniale, è secondo lei, oggi, un paese razzista?

Sì, con mia grande vergogna. E, purtroppo, negli ultimi anni abbiamo assistito a una sorta di sdoganamento dei discorsi e dei comportamenti razzisti o islamofobici (spesso l’uno copre l’altro). Quando ero bambina, alla fine degli anni Novanta e all’inizio degli anni Duemila, votare per il Front National era una vergogna. Oggi non più, e la caduta di questo argine sì che mi sembra un fatto pericoloso.

La Francia immaginata da Bardella è perfettamente nel solco filo-americano: sostegno alla «politica estera» di Israele, armi a Kiev, ingresso della Ucraina nella Nato. Ci si scandalizza del sostegno di alcuni «gollisti» al Rn, ma i gollisti di oggi non sarebbero d’accordo con il generale De Gaulle, che sulla Nato aveva una posizione molto scettica…

È sorprendente che un partito dalle origini profondamente antisemite, erede di Vichy, e che contava ex Ss tra i suoi membri, assuma una posizione così smaccatamente filo-israeliana – ma questa è la nuova posizione rivendicata da molti esponenti dell’estrema destra, per quanto paradossale possa essere. Sì, anche il sostegno di alcuni «gollisti» è paradossale. Ma De Gaulle, che non sempre è stato un modello di democrazia, è morto e sepolto da tempo. Proprio come quella specie di linea rossa che ha finora tenuto i Le Pen ai margini della Repubblica.