L’addio alla finzione di Jean Genet, ora nei panni dell’equilibrato partigiano
Scrittori francesi «Palestinesi», dal Saggiatore
Scrittori francesi «Palestinesi», dal Saggiatore
Chiunque conosca la scrittura di Jean Genet sa che, in fondo – come notava uno dei suoi traduttori più attenti e raffinati, Giorgio Caproni – questo oltremodo ostentato ribelle ha fatto di tutto per nascondere la sua vera natura. Non era che uno scrittore, certo straordinario: un tessitore accuratissimo di avventure stilistiche, di vertigini linguistiche che si distendono nel ritmo di una pagina, dove la carne della vita si sublima nel tempio della forma.
In chiusura dell’introduzione al suo libro forse più riuscito, il Diario del ladro, Genet scriveva: «Con cura maniaca, “gelosa”, ho preparato la mia avventura come si prepara un letto, una camera per l’amore», frase che risuona nella memoria alla lettura (o ri-lettura) degli scritti raccolti in Palestinesi (prefazione di Tahar Ben Jelloun, traduzione e note di Marco Dotti, il Saggiatore, pp. 263, € 20,00, riproposto in sostituzione di un’ormai esaurita edizione Bompiani).
Siamo trent’anni dopo la nascita dei grandi romanzi di Genet, che – nell’intervista a sigillo del volume – lo scrittore francese racconta essere nati in una condizione di prigionia, fisica, materiale e soprattutto mentale, dove narrare equivaleva a evadere dalle proprie ombre interiori. Ombre modellate al modo di corpi, splendidi e terribili, violenti e sublimi nella loro pratica di una omosessualità classica precipitata nel groviglio del mondo contemporaneo.
Esaurito, quindi, il tempo del racconto, e con esso il sospetto che i frutti di quella terapia necessaria nascondessero il proprio travaglio, Genet si dedica a queste pagine saggistiche, sospese tra il reportage, la prosa lirica e la conversazione/intervista, dove traspare – palpabile e quasi urtante – il disappunto verso la finzione del romanzo. Che non serve più.
La redazione consiglia:
Palestinesi e israeliani combattenti: per la paceNei testi di Palestinesi troviamo tutto l’impegno dello scrittore francese per un popolo presentato come vittima di una vendetta – quella degli ebrei nei confronti di un occidente che li ha prima sterminati, poi soccorsi, trasformandoli da esuli in aguzzini – una vendetta che ha sbagliato mira. Chi cercasse, – magari invogliato dall’ottimo apparato di note storiche in appendice a firma del traduttore, Marco Dotti –, di approssimarsi alla questione palestinese riconoscendo in Genet un testimone rigoroso e obiettivo, in quanto viaggiatore che al principio degli anni Settanta ha vissuto accampato con i fedayin sulle montagne della Giordania, rimarrebbe sconcertato.
In virtù di quella libertà che è a suo giudizio pienezza e chiaroveggenza di sguardo, Genet cerca di presentarsi come un equilibrato partigiano, sforzandosi di fornire, con la perizia dello storico che non nasconde la propria simpatia ma la giustifica con una ricerca solida dei fatti, un quadro inappuntabile delle cause della persecuzione cui sono sottoposti i palestinesi, cacciati dalla loro casa da chi per lunghi secoli una casa non l’ha avuta.
Dove risiede, allora, il sentore di qualcosa che non torna, l’avvertire di stare frugando dalla parte sbagliata del libro? Non del tutto tacitato, l’antico cantore «sensualmente eccitato per il delitto», rivive nelle pagine dedicate al rapporto erotico tra i fedayin e le armi, nelle estetizzanti descrizioni dei loro corpi guerrieri, negli slanci sulle loro chiacchiere rivoluzionarie, sconclusionate e violentemente innocenti. La rivoluzione dei palestinesi è, in sostanza, per Genet condizione di un perpetuo disordine: «la rivolta di ogni uomo è necessaria. Da quando si crea un piccolo disordine, detto altrimenti da quando si dispone un proprio ordine singolare, individuale, si realizza una rivolta», si legge in chiusura del saggio.
Quando i palestinesi saranno uno stato, il cantore della rivolta quotidiana non sarà più con loro: Genet lo puntualizza senza mezzi termini, incalzato da un intervistatore. Dietro al cipiglio dell’analista politico, parla il poeta di sempre: a caccia di parole, e al rischio di travisamenti letterari, della tragedia che ha sotto gli occhi.
I consigli di mema
Gli articoli dall'Archivio per approfondire questo argomento