Era il febbraio del 2002, al Forum sociale mondiale di Porto Alegre nessuno stava più nella pelle. Nato giusto l’anno prima, il Forum diceva e cantava che «un altro mondo è possibile», e già alla seconda edizione sembrava possibile davvero: l’incontro clou delle millanta manifestazioni con cui la sinistra altermondista mondiale aveva invaso la capitale del Rio Grande do Sul avrebbe visto due ospiti d’eccezione, il venezuelano Chavez e il brasiliano Lula, il primo già eletto e rieletto presidente del pozzo petrolifero latinoamericano, il secondo atteso al suo quarto tentativo di diventare presidente dell’ottava economia del mondo.

La redazione consiglia:
Il Comandante che ha fatto una rivoluzione senza perderla

Lula era il padrone di casa, aveva appena smesso i maglioni per giacca e cravatta e i toni militanti per un pragmatismo di sinistra che incendiava i sondaggi, girava circondato da mazzi di troupe televisive e da grosse guardie del corpo che tenevano a distanza un pubblico in adorazione permanente. All’entrata del palazzetto di Porto Alegre, quel pubblico premuto dietro le transenne sembrava il sambodromo di Rio. E Lula, che marciava rapido dietro il suo manipolo di corpacciuti osservando tutto senza guardare nessuno, sul più bello inchiodò la corsetta, dribblò d’istinto il corpacciuto più vicino, saltò la transenna, scavalcò qualche altro corpo e si lanciò al collo di un signore nemmeno in prima fila, sommergendolo di abbracci e pacche sulla schiena.

La redazione consiglia:
Campione idealista e provocatorio
Nel bel mezzo della folla Lula inchiodò la corsa, dribblò le terrorizzate guardie del corpo, saltò la transenna e valicando corpi volò al collo di un tizio neanche in prima fila. Indovinate chi era

Era Gianni Minà, naturalmente. Ed era il «nostro» Gianni Minà. Perché da poco più di un anno aveva cominciato a scrivere sul manifesto.
Il panico dei corpacciuti per quella fuga fuori ordinanza si dissipò ragionevolmente in fretta, fu più lungo spiegare a una ventina di telegiornalisti brasiliani chi era quel tizio per cui il prossimo presidente del Brasile aveva stracciato in un batter d’occhio il protocollo e ogni e qualsiasi procedura di sicurezza. Era il normale «effetto Minà», l’irresistibile facoltà di calamitare protagonisti del loro tempo in tutto il mondo verso il suo sorriso amichevole, in un rapporto causa-effetto che dovrebbe essere inserito nella fisica classica, più o meno come la termodinamica.

La redazione consiglia:
Quella sua marcia del rifiuto

Al manifesto era arrivato con verso la fine del 2000. Era entrato in conflitto con L’Unità per cui da tempo collaborava, il direttore del manifesto Riccardo Barenghi l’aveva chiamato e poi passato il contatto a un giovane caporedattore col chiodo fisso dell’America latina. Non ci fu bisogno di discutere: nel settembre del 2000 usciva il primo pezzo, sul Guatemala.

Avremmo imparato presto che c’erano altri principi della fisica che Gianni Minà trovava discutibili. Il principale è sempre stato l’impenetrabilità dei corpi: non c’è mai stata alcuna possibilità di avere un pezzo lungo un numero ragionevole di righe, erano invariabilmente il doppio di quelle richieste – il fatto che una pagina di carta abbia una quantità finita di centimetri quadrati veniva sistematicamente ignorato, un Pintor al contrario per cui se Luigi non voleva scrivere più di 30 righe, Gianni non poteva scriverne meno di 200.

La redazione consiglia:
Hebe, così lottò una madre

In questo modo lietamente terrificante, con trattative estenuanti su ogni parola da togliere e rimettere, sono usciti sul manifesto qualcosa come 150 pezzi suoi. Sull’America latina naturalmente, sulle sue contraddizioni, con accesissime discussioni sulla crisi del chavismo o sulla crisi di Cuba, che lui ostinatamente difendeva con pochi aggettivi e molti argomenti, ma anche pezzi di musica di cui era raffinato conoscitore, e persino di mafia (quando morì Antonino Caponnetto, il procuratore di Palermo che inventò il pool antimafia, il pezzo non lo scrisse un navigato mafiologo ma Gianni).

La redazione consiglia:
Il Comandante che ha fatto una rivoluzione senza perderla

Le sue intime, poliedriche amicizie diventarono un patrimonio anche per noi del manifesto, inclusa la voluminosa «agenda ’e Minà» resa celeberrima da quello sketch improvvisato in tv da Massimo Troisi per coprire un improvviso buco nella programmazione. Non chiamammo mai la F di Fidel, ma sapere di poterlo fare era una godùria – per il resto ne approfittammo, cercando di non esagerare. E il giovane caporedattore finì senza farlo apposta per andare ad abitare vicino a casa sua, lassù alla Balduina sopra Monte Mario, e fare ogni tipo di incontro nel suo studiolo insieme alla formidabile Loredana, davanti al ritratto che gli aveva fatto Alvaro Siqueiros – e qualche volta trovare asilo nel letto degli ospiti, se non già occupato da Luis Sepulveda o da una qualsiasi delle innumerevoli vittime dell’«effetto Minà».

La redazione consiglia:
Ciao Lucho, guerrigliero romantico

La disfunzionale e miracolosamente efficiente famiglia del manifesto ha perso un compagno di strada, di quelli che lasciano un vuoto che non si prova nemmeno a riempire. Il giovane caporedattore ora non è più così giovane e abita molto, molto più lontano.

Leggi gli articoli sull’archivio storico del manifesto