Ecuador, Guatemala torna la speranza e parla anche a noi
America Latina Pur avvenute in paesi tra loro diversi, le elezioni di domenica in Guatemala e Ecuador lanciano un segnale di speranza al movimento democratico-progressista dell’America latina.Più chiaro il segnale in Guatemala, […]
America Latina Pur avvenute in paesi tra loro diversi, le elezioni di domenica in Guatemala e Ecuador lanciano un segnale di speranza al movimento democratico-progressista dell’America latina.Più chiaro il segnale in Guatemala, […]
Pur avvenute in paesi tra loro diversi, le elezioni di domenica in Guatemala e Ecuador lanciano un segnale di speranza al movimento democratico-progressista dell’America latina.Più chiaro il segnale in Guatemala, dove potrebbe essere giunto alla fine il lungo ciclo di governi corrotti, oligarchici e autoritari che hanno dominato il paese nelle ultime decadi. Nelle presidenziali, il candidato progressista Bernardo Arévalo del partito Movimento Semilla ha ottenuto una netta vittoria sulla rappresente delle destra, Sandra Torres, in un ballottaggio nel quale i settori più reazionari e militaristi l’avevano “adottata” proprio per sconfiggere l’unico candidato “antisistema”.
Il Movimento Semilla,infatti, è un prodotto dei movimenti sociali scoppiati nel 2016 contro l’allora presidente Otto Péerez Molina, un ex militare accusato di genocidio oltre che un governante estremamente corrotto.
Fin dalla sua scesa in campo, all’inizio dell’anno, Bernardo Arévalo e il suo partito sono stati oggetto di violenti attacchi da parte dei mass media dell’oligarchia guatemalteca- militari, impresari e affaristi-, e soprattutto di un vero e proprio lawfare mediante il quale il giudice Fredy Orellana ha tentato di mettere fuori legge il Movimento Semilla senza alcun fondamento giuridico.
Questi precedenti fanno temere che la strada che separa il successo elettorale di Arévalo dalla sua presa di possesso della carica di presidente (il prossimo gennaio) non sarà certo in discesa. L’oligarchia guatemalteca che rimane la padrona di partiti e instituzioni –presidenza compresa- farà tutto il possibile per ostacolare il neo eletto e la sua volontà di iniziare «una nueva primavera democrática». Per questo è necessaria una mobilitazione delle forze democratiche internazionali affinché vengano rispettati i risultati del voto.
Meno chiaro il segnale di speranza che viene dall’Ecuador. Era infatti prevededibile che la candidata progressista Luisa Gonzàlez, del partito Revolucón Ciudadana (RC) avrebbe raggiunto il ballottaggio. La vera sfida era dare al primo turno la stoccata alle destre che permettesse l’elezione alla presidenza al primo turno. E il ritorno in Ecuador della politica di apertura sociale e di difesa della sovranità nazionale messa in opera durante la presidenza di Rafel Correa (2007-2017) e inaspettatamente ribaltata dal suo successore Lenin Moreno (2017-21). Da quel momento e con la presidenza di Guillermo Lasso la nazione andina è affondata nella corruzione e la violenza e ha subito lo spadroneggiamento delle pandillas e organizzazioni dei narcos. Violenza che ha caratterizzato anche le elezioni con l’assassinio del candidato Villavicencio .
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Ecuador al ballottaggio. Ma la vera sorpresa è l’assenza di violenzaLa stoccata non è avvenuta. Ma il risultato ottenuto da González e dal suo partito è comunque importatante. RC ha circa 40% dei seggi del parlamento e la candidata progressista con il 33,2% di voti sorpassa di quasi dieci punti il suo rivale nel ballottaggio che avverrà il 15 ottobre. Si tratta del giovane (milionario, (35 anni) outsider Daniel Noboa, la vera sorpresa di queste elezioni. L’alleanza che lo sostiene, ADN, supera di poco il 10% dei seggi. Ma è quasi certo che le destre lo sosterranno nel ballottaggio, dove il partito correista rischia idi ripetere la sconfitta che subì al ballottaggio due anni fa. Anche in Ecuador dunque si annunciano settimane di tensione, dove il paese sarà praticamente sotto il controllo (per la sicurezza) dei militari.
In entrambi i paesi latinoamericani vi è il rischio che i proprio i militari tornino ad un ruolo decisivo. Non in prima persona, come durante i decenni golpisti del secolo scorso, ma come guardiaspalla e padrini delle destre e/o forza capace di condizionare i governi democratici e progressisti (come in parte avviene in Brasile).
Guatemala e Ecuador sono accomunati anche dalla forte componente etnica – indigeni o nativi- della popolazione. Si tratta spesso di comunità che avvertono la democrazia dei loro paesi, quella di netto stampo neoliberista, come una eredità del passato – ma non troppo passato – colonialista. Alla quale contrappongono forme di rappresentanza comunitaria e di democrazia partecipativa spesso conculcata dalle istituzioni. Lo si è visto anche domenica in Ecuador dove la Confederazione delle nazionalità indigene dell’Ecuador (Conaie) non ha presentato candidati. Il Conaie forse giocherà le sue carte nel ballottaggio. Intanto ha incassato il successo nel referendum per bloccare l’estrazione del petrolio nel parco nazionale di Yasurí.
Comunque sia, la sfida dei partiti e dirigenti progressisti latinoamericani è sapersi confrontare con queste forme diverse di democrazia popolare per contrastare la tendenza ormai decennale di sfiducia generalizzata – come dimostrano varie inchieste nel subcontinente- nei confronti di istituzioni, partiti e politici. Hanno ragione gli analisti – come argentino Claudio Katz – quando affermano che solo queste forme di democrazia partecipativa e dal basso possono innnervare i governi progressisti e rafforzare la resistenza all’avanzata delle ultra-destre latinoamericane(ben collegate a quelle nostrane, come la spagnola Vox e Fdi). Un avvertimento questo valido anche per le sinistre europee.
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