Sono passate da poco le 19.15 a New Delhi quando Narendra Modi sale sul podio e pronuncia il suo giuramento da primo ministro a fatica, davanti a centinaia di invitati che urlano «Modi! Modi! Modi!».

Se non si conoscesse l’esito deludente delle elezioni che hanno visto il Bharatiya Janata Party (Bjp), il partito di Modi, enormemente ridimensionato tra i seggi del nuovo parlamento, la cerimonia del giuramento di domenica 9 giugno avrebbe tutte le caratteristiche di un trionfo storico: la folla esaltata, le urla, i cori e una squadra di governo che si prepara ad amministrare per la terza volta consecutiva la democrazia più grande del mondo. Per Modi non è stato esattamente un trionfo, ma per lui e per l’India è un giorno più storico degli altri.

PRIMA dell’attuale primo ministro, solo il padre della patria Jawaharlal Nehru dell’Indian National Congress era stato capace di farsi eleggere per tre volte di fila. Ci è riuscito anche Modi, e non succedeva dal 1962. Gli invitati di calibro internazionale che hanno accettato l’invito di Modi a partecipare alla cerimonia non rispecchiano il rinnovato status di «quasi superpotenza» che l’India ha saputo costruirsi in questi dieci anni.

Sono tutti pezzi grossi della politica regionale: c’è il presidente dello Sri Lanka, quello delle Maldive – musulmano, con cui i rapporti si erano fatti molto tesi negli ultimi mesi – il vicepresidente delle Seychelles, la prima ministra del Bangladesh e quelli di Mauritius, Nepal e Bhutan.

Cina e Pakistan, senza sorpresa, non sono stati invitati, mentre all’ultimo è arrivata la conferma di Mallikarjun Kharge, presidente dell’Indian National Congress (Inc), che dopo un paio di giorni di polemica sul presunto mancato invito alla cerimonia, alla fine era seduto in platea.

Dopo dieci anni di governi sostanzialmente monocolore a New Delhi e un’opposizione frammentata e ridotta ai minimi termini, il Modi 3.0 sarà un governo di coalizione e dovrà fare i conti con un’opposizione molto più consistente, agguerrita e meglio organizzata. Insomma, in India sembra essere tornata la politica democratica vera e per Modi non sarà semplice navigare tra i compromessi con gli alleati e gli attacchi dell’Inc della famiglia Gandhi, che con 99 seggi in parlamento – che salgono a 236, contando l’intera coalizione – non potranno più essere né ignorati né sbeffeggiati come successo dal 2014 in avanti.

La coalizione INDIA, guidata in campagna elettorale da Rahul Gandhi, ha deciso di confermare la leadership dell’ultimo erede maschio della famiglia politica più importante della storia indiana anche in parlamento: lo hanno votato «speaker dell’opposizione», lui ha ringraziato, ha detto che ci vuole pensare, ma è probabile che accetterà.

Per quanto riguarda il gabinetto di governo Modi 3.0, l’elenco dei ministri è rimasto pressoché invariato rispetto al Modi 2.0. I dicasteri ancora non sono stati ufficializzati, ma sono stati confermati S. Jaishankar agli esteri e Nirmala Sitharaman alle finanze, entrambe persone di cui Modi si fida e che rappresentano l’ala del governo più «presentabile» a livello internazionale: Jaishankar è un ex diplomatico, Sitharaman un’economista, entrambi ex alunni della Jawaharlal Nehru University (Jnu), l’università pubblica più prestigiosa e «di sinistra» del paese. Ideologicamente, non condividono le pulsioni ultrahindu e anti-musulmane del governo in cui siedono.

DIVERSO il discorso per lo zoccolo duro dell’ultrainduismo di governo che è stato riconfermato compatto: hanno giurato Amit Shah – braccio destro di Modi da vent’anni, probabilmente andrà agli interni – Rajnath Singh (già alla difesa) e Nitin Gadkari (infrastrutture).

Assieme a Modi e a molti altri ministri «minori», fanno parte della classe dirigente cresciuta politicamente nella Rashitriya Swayamsevak Sangh (Rss), l’organizzazione paramilitare ultrahindu, spina dorsale ideologica del modismo. In questo senso, si preannuncia una continuità nelle politiche settarie che hanno caratterizzato questi dieci anni di governo Modi.

K.C. Tyagi, il portavoce del Janata Dal (United) che è uno degli azionisti di minoranza di questo governo targato Bjp, nei giorni scorsi ha detto che il suo partito «non permetterà campagne anti-musulmani finché sarà al governo col Bjp». La lista di ministri che hanno giurato ieri, però, lascia presagire esattamente il contrario.