Il copione è noto e sperimentato: l’aggravarsi delle condizioni di salute di Alfredo Cospito sollecita un intervento per salvarne la vita (revoca, quantomeno interlocutoria, del regime di 41 bis); intervengono in parallelo manifestazioni di anarchici caratterizzate da scontri con la polizia e attentati di matrice analoga (così, almeno presentati); il Governo e la maggioranza parlamentare fanno quadrato affermando che lo Stato non può cedere al ricatto e cercando così di chiudere con una pietra tombale (nel senso letterale del termine) la vicenda. La sequenza degli argomenti è suggestiva ma del tutto infondata.

Primo. I protagonisti della vicenda sono un anarchico detenuto e il Governo. Gli altri sono attori di sostegno (o di disturbo) oppure comparse. Cospito è, da oltre cento giorni, in sciopero della fame, ha perso 42 kg, è fortemente debilitato e in difficoltà a reggersi in piedi, deve – secondo i medici – astenersi dal camminare e si muove su una sedia a rotelle. A questo punto non è dato sapere fino a quando il suo fisico reggerà. La sua protesta è contro la sottoposizione al regime di cui all’art. 41 bis e, più in generale, contro tale regime e l’ergastolo ostativo. Il secondo obiettivo è complesso e, in ogni caso, richiede tempi medi o lunghi. Il primo va affrontato subito con un semplice atto del ministro guardasigilli.

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Non sono qui in discussione i delitti commessi (e la loro gravità) e, del resto, la richiesta di Cospito non è la libertà ma un trattamento carcerario più umano, conforme a quello ricevuto fino a un anno fa, per ben nove anni (a dimostrazione che il regime cui è attualmente sottoposto ha alternative). Non c’è nessun ricatto, di cui è elemento essenziale una violenza o una minaccia costituenti “coazione morale” nei confronti di altri (nella specie lo Stato); Cospito non minaccia nessuno ma mette in gioco la propria vita con un lungo suicidio. Lo Stato (e, per esso, il Governo) lo ha in custodia ma anche in cura e deve decidere se – ferma la custodia – deve farlo vivere o morire.

Questo è il dilemma: il resto è solo ricerca di un alibi. E il trasferimento nel carcere di Opera, di cui giunge notizia mentre scrivo, è un primo passo ma ancora insufficiente (posto che aiuta a tenere sotto controllo gli effetti dello sciopero della fame ma non ne rimuove le cause).

Secondo. Ci sono manifestazioni di sostegno a Cospito e al suo sciopero. Esse dimostrano che il suo gesto non è isolato. Sarebbe strano che non ci fossero e ce ne saranno ancor più se la vicenda non troverà in tempi rapidi una soluzione. A volte esse hanno visto scontri con la polizia. Accade, talora, in manifestazioni di segno diverso e se ci sono dei reati vanno puniti. Ma questo non c’entra nulla con lo sciopero della fame di Cospito e con la necessità di affrontare, con intelligenza e umanità, i problemi che esso pone.

È vero anche che ci sono stati attentati e lettere di minacce contrassegnati con la “A” dell’anarchia. Probabilmente provengono da aree della galassia anarchica (anche se qualche dubbio è lecito in un Paese in cui le provocazioni e i depistaggi si sono susseguiti in grandi e piccole vicende). Essi vanno stigmatizzati e perseguiti. Ma, ancora una volta, cosa c’entrano con le condizioni di salute di Cospito? E ciò a tacere del fatto che le buone ragioni restano tali anche se sostenute (da terzi) con metodi inaccettabili e/o penalmente illeciti.

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Terzo. C’è, infine, la questione generale del 41 bis e dell’ergastolo ostativo. Qui le strumentalizzazioni sono massime e taluno tira in ballo finanche Messina Denaro, Riina, la mafia e quant’altro. Del tutto a sproposito. Non solo perché il caso di Alfredo Cospito è tutt’altro. Ma soprattutto perché il problema aperto non sta tanto negli istituti contestati quanto nella loro applicazione ed estensione, che hanno portato al numero esorbitante di 749 sottoposti al 41 bis e di 1280 condannati all’ergastolo ostativo, alla abolizione di fatto della discrezionalità del giudice nella fase esecutiva, a misure afflittive veicolo dell’introduzione nel sistema di un “carcere duro” non previsto dalla legge.

Forse sarebbe bene cominciare a parlarne con pacatezza anziché lanciare anatemi che finiscono per nuocere anche a un’azione razionale di contrasto della mafia.

Ci sono Paesi in cui morire in carcere per sciopero della fame è una scelta frequente, nell’indifferenza (o addirittura nel compiacimento) del Governo. Basti pensare alla Turchia. Non è il caso dell’Italia, almeno per ora. È auspicabile che non si cambi strada.