«Dove andate?» chiede il soldato al posto di blocco. «Avdiivka» rispondiamo. Storce il naso, mugugna qualcosa e ci dice di accostare la macchina al bordo della strada mentre chiama un collega della polizia militare. «Di qua non potete passare, qualche chilometro più a sud ci sono i russi e sono in corso combattimenti».

È un ragazzo biondo molto giovane, si vede che tiene l’uniforme con le protezioni e l’elmetto solo perché è obbligato dalla presenza dei commilitoni. Se d’inverno si intravedevano solo gli occhi dei soldati tra gli elmetti e i passamontagna, ora è evidente che le uniformi e, soprattutto, i giubbotti antiproiettile sono una zavorra insopportabile.

Il caldo è umido e intenso qui in Donbass e ai check-point la ricerca di un po’ d’ombra ha sostituito la smania di tornare nelle baracche dove erano accese le stufe a legna.

QUINDI L’AUTOSTRADA è chiusa, «però» aggiunge l’agente «potete passare attraverso i villaggi, è più lunga ma si arriva ancora». Mentre facciamo manovra ha un ripensamento e si avvicina di nuovo «non passate da Novo Bakhmutivka, ci potrebbero essere i russi».

Capita abbastanza spesso negli ultimi giorni di trovare strade bloccate nell’oblast di Donetsk. Così come è frequente incontrare militari appena trasferiti da altre regioni dell’Ucraina che non conoscono bene il territorio o che ignorano quale sia la situazione a poche decine di chilometri.

Non è chiaro se si tratti di rinforzi o di normale rotazione dei reparti, in ogni caso è diventato più difficile ottenere informazioni sui percorsi e sulla situazione nelle zone più a rischio. Inoltre, dopo la morte del giornalista francese Frédéric Leclerc-Imhoff a Severodonetsk, i militari sono generalmente più cauti nel dare indicazioni alla stampa.

DOPO DIVERSE deviazioni arriviamo nei pressi di Pokrovsk e svoltiamo verso una strada che si addentra per molti chilometri in aperta campagna. Ai lati campi di grano e sparute macchie di boscaglia dove ogni tanto si intravede un mezzo pesante o qualche pezzo d’artiglieria. All’ultimo posto di blocco i controlli sono blandi.

La situazione ad Avdiivka è «così così» dice un soldato, «50 e 50?» chiedo, «diciamo 60 e 40», con i russi in vantaggio. Quando ci riconsegnano i passaporti salutano con un eloquente «buona fortuna» che mette tutti di cattivo umore. Il motivo di tanta tensione è la vicinanza tra Avdiivka e Donetsk, la capitale della Dnr separatista.

In questa zona sono 8 anni che la guerra va avanti e l’artiglieria da una parte e dall’altra del confine provvisorio non cessa di sparare. Ora, però, Avdiivka e la vicina Pisky costituiscono lo sbarramento all’avanzare delle truppe filo-russe e quindi sono fondamentali per gli ucraini.

UN CARTELLO INSTALLATO di recente ricorda che «Avdiivka è ucraina», ma in realtà sembra terra di nessuno. Seguiamo una colonna di fumo e arriviamo in un comprensorio dall’altra parte della città, uno dei classici quartieri sovietici con i palazzi a cornice e i giardini al centro.

Qualcuno aveva dipinto un murales sulla parete sopra il parco-giochi che ritraeva una bambina sorridente con in mano un grande annaffiatoio. Un colpo di mortaio ha bucato il muro proprio accanto alla faccia della bambina e i giochi sono pieni di macerie. Tra i palazzi il vento forte spinge il fumo in faccia e si respira a fatica.

Uno degli edifici colpiti è una scuola il cui ultimo piano è un groviglio di fiamme e macerie. Intorno è difficile trovare un palazzo con le finestre integre e, alle spalle della scuola, anche alcune abitazioni private hanno preso fuoco.

SASHA, UN UOMO di circa 40 anni che spacca legna fuori dal portoncino di ferro del suo palazzo rifiuta una sigaretta ma ci dice di portarle a sua madre che arriva dopo poco. «Non c’è rimasto più niente qui, vedete? Non c’è gas, non c’è acqua, non c’è corrente… domani potrebbe non esserci più neanche la casa».

Girando tra le stradine interne del comprensorio si scopre che la gente c’è. Sono nascosti negli atri dei palazzi, nei rifugi al pianterreno, alcuni uomini spaccano legna come Sasha e delle signore preparano qualcosa in una marmitta da sistemare su un fuoco.

Gli sguardi sono diffidenti, quasi nessuno risponde al saluto e in molti rimangono sul portoncino come animali in gabbia impauriti. È un’immagine penosa che un po’ ti fa vergognare di essere andato proprio lì a vedere quella miseria così manifesta.

Alla fine siamo noi che abbassiamo lo sguardo. Una signora molto anziana ma più in forma della figlia sessantenne si avvicina per raccontarci che non sono stati i russi, «sono quelli di Pravy Sektor a bombardare, mi devi credere, i russi non lo farebbero mai».

Probabilmente nei dintorni sono in molti a pensarla come lei. Poco dopo altri boati fanno affrettare i residenti verso i rifugi, la signora continua a dire: «Nie russìa, niè».