Djalali è ancora vivo ma il boia è vicino. Ipotesi di scambio con detenuti iraniani
Iran Il ricercatore svedese avrebbe dovuto essere giustiziato il 21 maggio, ma è tutto sospeso. Si spera nell'intervento delle diplomazie europee. Esecuzioni in aumento nella Repubblica islamica: dalle 246 del 2020 alle 314 del 2021, il 42% per droga
Iran Il ricercatore svedese avrebbe dovuto essere giustiziato il 21 maggio, ma è tutto sospeso. Si spera nell'intervento delle diplomazie europee. Esecuzioni in aumento nella Repubblica islamica: dalle 246 del 2020 alle 314 del 2021, il 42% per droga
L’impiccagione del ricercatore iraniano Ahmad Reza Djalali era prevista entro la fine del mese di Ordibehesht del calendario persiano, ovvero entro il 21 maggio.
«Quella data è passata ed è finito un incubo, ma ne è subito iniziato un altro perché già sappiamo che la magistratura di Teheran ha terminato la procedura di revisione del suo caso e il cappio del boia potrebbe stringersi ben presto attorno al collo del ricercatore universitario», commenta Riccardo Noury, portavoce di Amnesty Italia.
Secondo l’ultimo rapporto di Amnesty International sulla pena di morte, «dal 2017 in Iran si è registrato un aumento delle condanne capitali: si è passati da almeno 246 esecuzioni nel 2020 ad almeno 314 nel 2021, con un aumento percentuale del 28%.
Il dato è il più alto registrato nel paese dal 2017. La parte più consistente di queste esecuzioni (42%) è costituita da esecuzioni di condannati a morte per reati di droga (132 in totale), il cui ammontare è cresciuto più di cinque volte rispetto al 2020».
QUELLA DI DJALALI è però tutta un’altra storia. Nato cinquant’anni fa nella località di Sarab nella regione iraniana dell’Azerbaigian, Ahmad Reza Djalali è specializzato in medicina di emergenza e ha svolto ricerca in diversi istituti europei tra cui l’Università degli Studi del Piemonte orientale, il centro Crimedim di Novara, la Vrije Universiteit di Bruxelles e l’Istituto Karolinska di Solna, a pochi chilometri da Stoccolma.
Era stato arrestato nel 2016 mentre si trovava in Iran su invito dell’Università di Teheran e Shiraz. Sotto tortura, aveva confessato di essere una spia al soldo dello Stato ebraico e di aver indicato al Mossad due scienziati nucleari, poi uccisi nel 2010.
Nel gennaio 2017 era stato trasferito nella sezione 15 del tribunale rivoluzionario di Teheran con l’accusa di spionaggio. Senza avvocato, al quale era stato impedito di presenziare alle udienze, nell’ottobre dello stesso anno il ricercatore era stato incarcerato nella prigione di Evin e condannato a morte per impiccagione con l’accusa di «corruzione sulla terra».
Dopodiché, nel luglio 2019 era stato trasferito in un luogo ignoto in attesa della condanna capitale.
In questi anni sono stati numerosi gli appelli a favore di Djalali. Si è anche ipotizzato uno scambio con un detenuto iraniano, Hamid Nouri, che un tribunale svedese potrebbe condannare all’ergastolo il prossimo 14 luglio anche se nega ogni capo d’accusa e dice trattarsi di un caso di omonimia.
Si tratterebbe di un ex funzionario della magistratura iraniana, arrestato nel 2019 all’aeroporto di Stoccolma e recentemente sotto processo in Svezia per il suo presunto coinvolgimento nell’esecuzione di massa di dissidenti negli anni Ottanta nelle carceri iraniane.
Il portavoce della magistratura di Teheran, Massoud Setayeshi, ha però escluso l’ipotesi di uno scambio di prigionieri: «Non c’è alcun piano per scambiare Nouri con Djalali e quest’ultimo verrà giustiziato a tempo debito».
IN ITALIA IL CASO di Djalali è noto perché il ricercatore iraniano aveva lavorato all’Università del Piemonte orientale, a Novara, dove non si erano però concretizzare opportunità. Si era trasferito in Svezia, che nel 2018 gli ha concesso la cittadinanza.
Durante la presidenza del moderato Rohani, il ministro degli Esteri svedese Ann Linde aveva chiesto al suo omologo Javad Zarif di intercedere, ma il portavoce del ministero di Teheran aveva risposto: «Sfortunatamente, le informazioni a disposizione delle autorità svedesi sul caso di Djalali sono incomplete e false». In ogni caso, ha aggiunto, «la magistratura è indipendente dall’esecutivo».
In carcere, Djalali ha acquisito la cittadinanza svedese, ma dal punto di vista legale vale ben poco: l’Iran non riconosce la doppia cittadinanza. Di pari passo, non serve granché la cittadinanza onoraria conferita dal Comune di Novara, dopo che Djalali era detenuto nelle carceri iraniane da tre anni.
SECONDO NOURY, «ora la palla passa alla diplomazia europea, in particolare a quella dei Paesi in cui Djalali ha lavorato: Italia, Belgio e Svezia. Ad avere un ruolo prioritario saranno Bruxelles e Stoccolma, perché nelle loro carceri ci sono prigionieri iraniani che gli ayatollah e i pasdaran vorrebbero liberare. Da anni l’Iran arresta iraniani che hanno acquisito una seconda cittadinanza europea, con l’obiettivo di scambiarli con altri iraniani detenuti nel vecchio continente. Questa strategia è inaccettabile, le persone non possono diventare pedine».
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