Dieci, cento, mille missioni di pace
Crisi ucraìna Ogni tentativo in cui si accende la speranza di trovare la pace assume già un grande valore, pur se il cammino è più difficile da pensare e realizzare, perché presuppone assunzione di responsabilità e disponibilità a cedere potere e vantaggi
Crisi ucraìna Ogni tentativo in cui si accende la speranza di trovare la pace assume già un grande valore, pur se il cammino è più difficile da pensare e realizzare, perché presuppone assunzione di responsabilità e disponibilità a cedere potere e vantaggi
La grande filosofa politica Hannah Arendt sottolineava come la violenza sia «per natura strumentale come tutti i mezzi, ha sempre bisogno di una guida e di una giustificazione per giungere al fine che persegue».
Ciò è ancora più evidente per la guerra, che è una forma strutturale di violenza e viene utilizzata come strumento per definire equilibri politici ed economici. Chi si avvantaggia dalla guerra (o anche chi non ha pensiero e coraggio per altre strade) deve dunque in qualche modo giustificarla.
Storicamente e culturalmente la strada è stata quella di renderla ineludibile, cancellando dal quadro delle possibilità (anche più flebili) qualsiasi cammino di costruzione di pace «positiva» (cioè definita come presenza articolata di diritti) realizzata con mezzi pacifici. Da qui la centralità della «vittoria» come raggiungimento di una pace «negativa» (mera assenza di guerra). Distogliendo lo sguardo dal prezzo di sangue e i traumi lasciati in eredità per raggiungerla. D’altronde sempre la Arendt scrivere: «La guerra non restaura diritti, ma ridefinisce poteri».
Sono proprio i rappresentanti di questi poteri che, in tale quadro, continuano ad attaccare strumentalmente qualsiasi pensiero di pace o di nonviolenza. L’ultimo esempio in ordine di tempo sono le missioni di Mons. Zuppi inviato da papa Francesco prima a Kiev e poi a Mosca: accolte prima con strali (qualcuno le ha definite ossessive e deliranti) e poi con scherno.
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Ilya Ponomarev: «Io, partigiano anti-Putin di sinistra»Come se fosse possibile riportare la pace con uno «schiocco di dita» dopo mesi di bombardamenti, crimini, uccisioni, devastazioni ambientali. E scelte armate. Come è possibile rallegrarsi di fronte ad un fallimento negoziale? Anche se quello dell’Arcivescovo di Bologna a mio parere non è certo un fallimento, ma un prezioso tentativo di tenere accesa la fiammella della pace, dandole ossigeno.
La pace ha bisogno di tempo, di fatica, di impegno… come diceva Martin Luther King «non si può scacciare il buio con altro buio». Ogni tentativo in cui si accende la speranza di trovare la pace assume già un grande valore, pur se il cammino è più difficile da pensare e realizzare, perché presuppone assunzione di responsabilità e disponibilità a cedere potere e vantaggi. Tutto è molto più semplice con la «banalità della guerra», che proprio per tale motivo «funziona bene» soprattutto in un mondo iper-competitivo come quello liberista.
La banalità della guerra sterilizza tutto, sia le scelte attuali per il futuro sia quanto è stato fatto nel passato, consentendo inopinatamente anche a chi ha alimentato con armi guerre e violazioni di diritti umani di brandire il Diritto Internazionale come giustificazione dell’ineluttabilità della guerra. Magari chiedendo, dopo decenni di scelte sbagliate (non pensiamo solo all’Ucraina ma anche al raddoppio in venti anni della spesa militare che ha portato a un mondo più in conflitto armato), una soluzione magica e immediata a chi avrebbe intrapreso altre strade e soprattutto è consapevole che un’inversione di rotta e una ricucitura di vera Pace sono impossibili in poco tempo quando si è immersi nella guerra.
Per gli intellettualmente disonesti che fino a ieri alimentavano il sistema di guerra e ora si scandalizzano delle sue drammatiche conseguenze qualsiasi idea che prefiguri un’alternativa di pace attraverso percorsi nonviolenti deve essere spazzata via. Perché renderebbe chiara l’inconsistenza della scelta armata e militare come «soluzione», rendendone evidente la reale inefficacia soprattutto di percorso.
C’è poi il tema delle fallaci logiche e posizioni incoerenti su cui poggia il castello di carte della guerra «obbligata». Anche per il conflitto in Ucraina. Come spiegare altrimenti una Russia che da un lato è fragile, e quindi si può battere continuando a sostenere con le armi Zelensky, ma contemporaneamente una minaccia così grande da «costringere» l’Occidente ad accelerare il proprio riarmo (nonostante in dieci anni la Nato abbia superato di 10.000 miliardi di dollari le spese militari di Mosca)? Oppure con la figura di Putin: da un lato pazzo sanguinario che ha iniziato un’invasione senza senso ed è indisponibile a qualsiasi ipotesi di negoziato perché incapace di ragionare. Ma dall’altro considerato del tutto «razionale» nella gestione dell’arma nucleare?
Per giustificare il ricorso alle armi e scrollarsi di dosso le proprie responsabilità è più semplice credere in un Putin a due facce. Aveva dunque ragione papa Giovanni XXIII sessanta anni fa quando scriveva nella “Pacem in terris” che, in particolare nell’era atomica, è fuori di testa (“alienum est a ratione”) pensare che «la guerra possa essere utilizzata come strumento di giustizia». Che si può trovare solo con l’intelligenza della pace.
* Coordinatore Campagne Rete Italiana Pace e Disarmo
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