Visioni

«Diamant Brut», il corpo come fuga e l’ossessione di essere viste

«Diamant Brut», il corpo come fuga e l’ossessione di essere visteDiamant Brut» di Agathe Riedinger

Cannes 77 L'esordio di Agathe Riedinger è il primo film francese in concorso. Liane, 19enne di periferia cinica e spaventata, spera di essere presa in un reality

Pubblicato 6 mesi faEdizione del 16 maggio 2024

Liane (Malou Khebizi) ha unghie laminate, gli shorts e i capelli «piastrati» come infinite ragazzine che si vedono in giro. Ha diciannove anni, si è rifatta le tette grosse e pure un po’ le labbra per perfezionare la sua immagine social ipersessualizzata truccatissima – e con esiti tremendi – anche se poi, come la prendono in giro le amiche lei è ancora vergine. Che non è affatto una contraddizione, perché quel corpo che la ragazza controlla e martorizza è apparenza, materia virtuale, IG, messinscena, ricerca di fama e di like e di followers per fuggire a una vita incasinata, per rabbia, per provare qualcosa. O semplicemente perché adesso è così che funziona. I tacchi glissano e si piegano mentre attraversa il campo di una campagna finta pure lei sul bordo della periferia di HLM a Frejus, dove vive con la madre che non fa nulla e che detesta, e con la sorellina di cui si occupa e che la imita in tutto. Il padre non viene mai nominato e gli uomini qui sono solo figure sullo sfondo. I ragazzi giocano con le moto, si impennano, fanno stronzate, le fischiano dietro, lei sa come respingerli, a suo modo è anche un po’ guerriera.
Diamant Brut è il primo film francese del concorso, e l’esordio nel lungometraggio di una regista giovane, Agathe Riedinger che riprende il materiale già presente in un suo cortometraggio, J’attends Jupiter (2017) a cominciare dal personaggio di Liane.

Il soggetto giovani/periferie/social TikTok o Instagram, ambizioni di influencer, sogno da reality – qui uno dal titolo vagamente mistico, Miracle Islands, e un certo misticismo è diffuso nella storia – contiene potenzialmente in sé infiniti rischi di banalizzazione. Riedinger – anche autrice della sceneggiatura – prova però a spostare obliquamente la narrazione. E a partire dal corpo della sua protagonista, un corpo simbolico del suo tempo, in una versione esasperata pronta per un qualsiasi tv show, riesce a comporre un romanzo di formazione che si incolla sui suoi passi, fra le mille contraddizioni, senza giudizio né ricerca di spiegazioni. Che sono lì, evidenti, entrano nel paesaggio sociale piuttosto devastato, in quella povertà marginale, in cui lei per fare soldi ruba qua e là oggetti di marca e li rivende inventando scuse improbabili. Servono a casa ma soprattutto a continuare la costruzione della sua immagine e a rifarsi il culo – come mostra un’altra influencer assai famosa.
La direttrice del cast del reality la chiama, dice che le piace il suo stile. Sarà la svolta o è un’altra illusione? Liane va avanti, scintilla nel quartiere coi suoi tacchi che brillano a prova di gravità, infantile e adulta insieme, cinica e spaventata, altro da sé «per come sono vera» – dice. Chiusa nell’ossessione del suo orizzonte di fama dietro al quale si intravedono a fatica degli scorci.

LA REGIA di Riedinger l’accompagna, moltiplicando il suo sguardo nei molti che amplificano la sua immagine. Corpo e sguardo, dunque, che lo fabbrica e lo restituisce, lo inventa e lo smantella nel tiro incrociato fra lei, i suoi fan, i maschi, le amiche, per esistere, per essere visti. Senza domande tranne una volta: in quello sguardo diverso che scambiano Liane e una ragazza meravigliosa top model raffinatissima in uno spot nella villa dove Liane arriva per caso. Un altro mondo. Un altro corpo, un’altra parte di società. Questioni di classe. E un bordo ambiguo pieno di interrogativi.

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