David Colon, la nuova frontiera dei tecno-oligarchi
Cultura

David Colon, la nuova frontiera dei tecno-oligarchi

New Mexico, un tratto della Route 66 che collega Chicago a Los Angeles, Getty images

L'intervista Parla il docente di Sciences Po autore di «La guerra dell’informazione», Einaudi. Il conflitto globale per la conquista delle menti analizzato alla luce della vittoria di Trump e Musk

Pubblicato 3 giorni faEdizione del 10 novembre 2024

Un conflitto globale che contrappone gli Stati autoritari alle democrazie, ma che, come illustra la recente campagna presidenziale statunitense, può essere combattuto anche all’interno del medesimo Paese. Ciò che lo storico francese David Colon, docente di Storia della comunicazione, media e propaganda presso il Sciences Po Centre d’Histoire di Parigi – nato da un’idea di Pierre Milza -, descrive nel suo La guerra dell’informazione (traduzione di Chiara Stangalino, Einaudi, pp. 378, euro 25) è per molti versi il nuovo orizzonte della lotta per la libertà e la democrazia, minacciate da versioni arcaiche o ipermoderne di ideologie reazionarie e autoritarie. Una lotta che se un tempo avveniva sulla base di contrapposte visioni del mondo, oggi si compie sul modo in cui questo mondo è narrato.

David Colon

Partiamo da una definizione: lei spiega che a dominare lo scena globale, anche al di là dei conflitti che si combattono sul campo, è «la guerra dell’informazione». Di cosa si tratta e in che modo viene condotta?
L’espressione «guerra dell’informazione» designa l’utilizzo dell’informazione come strumento per danneggiare l’avversario o sottometterlo alla propria volontà. Dal debutto dell’era digitale caratterizza un tipo di scontro tra regimi democratici e regimi autoritari che vede i media e i social media come teatro delle operazioni e le menti dei cittadini come posta in gioco. Alla fine della Guerra Fredda, gli Stati Uniti hanno fatto della loro superiorità nelle tecnologie informatiche e nell’informazione globale una leva di potere al servizio dei propri interessi e dell’affermazione del modello democratico e liberale. Da allora, i regimi autoritari si sono impegnati da un lato a «proteggere» le menti dei loro cittadini dalle ingerenze straniere, ad esempio controllando i media e Internet, e dall’altro a interferire con il dibattito pubblico nelle società democratiche allo scopo di incoraggiare divisioni, caos e, in ultima analisi, il dubbio su cosa sia vero e cosa falso.

Figure come il presidente di X e il fondatore di PayPal Peter Thiel incarnano una tecnocrazia 2.0 che riunisce nelle stesse mani il potere economico, industriale e politico

Il libro descrive complessivamente lo sviluppo del fenomeno, ma l’esito del voto americano sembra offrire l’esempio più devastante di tutto ciò. Lei evidenzia il ruolo «dell’esercito di troll di Steve Bannon» già nella vittoria di Trump del 2016; un «lavoro sporco» che appare però quasi artigianale se paragonato alle forze schierate ora da Musk per Trump. Quale il ruolo del proprietario di X nel voto?
In effetti si può confrontare quanto accaduto nel 2016 e lo scorso 5 novembre: in primo luogo perché in entrambi i casi la vittoria di Trump si è giocata a partire dagli stessi tre Swing States, Pennsylvania, Michigan e Wisconsin, con circa 246mila voti quest’anno, e 77mila otto anni fa. Inoltre, Musk ha ripreso delle tattiche di «soppressione del voto» paragonabili a quelle usate nel 2016 da Cambridge Analytica e dall’Internet Research Agency. Per esempio, uno dei comitati d’azione politica che ha finanziato, il Future Coalition Pac, ha condotto campagne mirate a settori ben precisi dell’elettorato diffondendo annunci politici ostili a Kamala Harris, di tono pro-israeliano nelle aree del Michigan dove vive una folta comunità musulmana e, al contrario, antisemita e pro-Hamas nelle zone della Pennsylvania che contano una grande presenza ebraica. D’altra parte, emergono anche due grandi differenze: la prima è la cifra considerevole – più di 139 milioni di dollari – investita da Musk nella campagna di Trump attraverso l’America Pac, che ha preso di mira gli Stati chiave a partire proprio dalla Pennsylvania. La seconda differenza è X (l’ex Twitter), reso uno strumento politico al servizio di Trump e delle sue idee. I soli tweet di Musk hanno generato 17 miliardi di impressions: nessuno mai ha potuto disporre di una tale influenza su un voto.

Un’altra figura della Silicon Valley, il fondatore di PayPal Peter Thiel, vicino a J.D.Vance che lo cita tra i propri mentori nel suo «Elegia americana», ha dichiarato di non credere più che «la democrazia e la libertà siano compatibili». È questo l’orizzonte ideologico che ispira la nuova destra globale di cui Trump è oggi la figura più significativa, e in che forme potrà tradursi concretamente?
L’influenza di Peter Thiel si è già concretizzata nella scelta del vicepresidente eletto J.D.Vance, al quale è molto vicino, così come lo sono Musk e molte figure dell’alt-right. Tale influenza si esprime in particolare attraverso il «Progetto 2025», di ispirazione libertarian, che la maggioranza repubblicana sembra decisa ad applicare, ad esempio eliminando tutti i vincoli normativi che gravano sulle industrie inquinanti. Nel 2019 Thiel ha affermato che «ci sono tre futuri plausibili per l’Europa occidentale: la Sharia, l’intelligenza artificiale totalitaria, come la Cina, o l’iperambientalismo». Tra i tre, la sua scelta come quella di Musk è già stata fatta: questi miliardari della tecnologia intendono detronizzare la politica a favore della tecnologia, dell’intelligenza artificiale, in altre parole degli strumenti che hanno fatto la loro fortuna. Nel 1919, un ingegnere californiano, William Henry Smyth, coniò la parola «tecnocrazia» per designare «il potere del popolo reso effettivo dalla rappresentanza dei suoi servitori: scienziati e ingegneri». Musk e Thiel incarnano una tecnocrazia 2.0, che potrebbe essere definita come il potere economico, industriale e politico di un’oligarchia tecnopolitica.

Nel suo libro, il tema torna sia in relazione alla guerra d’invasione della Russia in Ucraina che al conflitto della comunicazione di Putin contro quelli che considera i valori liberali e democratici dell’Occidente: quale è il ruolo del Cremlino nella «guerra dell’informazione»?
Vladimir Putin ritiene da tempo che gli Stati Uniti e i loro alleati stiano conducendo una guerra dell’informazione contro la Russia e teme che il dominio degli Usa nelle tecnologie della comunicazione stia indebolendo la coesione della società russa e la sopravvivenza del suo stesso regime. Da ex ufficiale del Kgb quale è, ha brandito sia lo scudo, per «proteggere» le menti dei russi dalle interferenze straniere nell’informazione attraverso la censura e il controllo dei media, sia la spada, incoraggiando i servizi di intelligence e gli agenti d’influenza filo-russi ad indebolire la coesione delle società occidentali attraverso operazioni di destabilizzazione. Dal febbraio del 2022, il Cremlino ha unito alla sua guerra di aggressione contro l’Ucraina una guerra d’informazione contro tutti gli Stati che sostengono Kiev. Ciò si traduce in operazioni ibride, sia azioni eversive sul terreno che operazioni digitali. Queste ultime sono opera di reti di disinformazione come Doppelgänger o CopyCop, implementate da quelli che in Russia chiamiamo «tecnologi politici», società private specializzate in influenza, comunicazione e marketing digitale.

L’ex Twitter è al servizio del candidato repubblicano e delle sue idee. I soli tweet di Musk hanno generato 17 miliardi di impressions: nessuno ha mai goduto di una tale influenza

Al di là degli strumenti, sono «le narrazioni» veicolate a rappresentare il vero cuore della sfida in atto? Si tratti di fake news, complottismo, manipolazioni della verità, razzismo… questa minaccia rappresenta una nuova ideologia totalitaria, se non para-fascista, anche se ha le sembianze del soft-power?
Bisogna tenere ben presente che a Pechino, Mosca, Teheran e Pyongyang la guerra globale dell’informazione è vista come un conflitto all’ultimo sangue tra democrazie e regimi autoritari. E questi ultimi considerano l’attacco spietato alle democrazie come la loro miglior chance per sopravvivere nell’era digitale. La manipolazione dell’informazione ha perciò come obiettivo quello di far crollare le democrazie dall’interno, indebolendone la coesione, amplificandone artificialmente le divisioni, propagando odio e sfiducia verso le istituzioni e seminando confusione e dubbi. Non si tratta tanto di diffondere un’ideologia, come avveniva durante la Guerra fredda, quanto di minare il quadro stesso del dibattito democratico e di sostituire la realtà fattuale con una realtà «aumentata» o «aggiuntiva» che distorce le percezioni. Nel suo libro postumo La strana disfatta (1946), lo storico Marc Bloch parlava di un «minimo di informazione chiara e certa senza la quale non è possibile alcuna condotta razionale». La sfida che abbiamo di fronte riguarda perciò la capacità di proteggere o ripristinare l’integrità del nostro spazio pubblico, sia esso mediatico o più in generale digitale, per ostacolare l’ascesa della post-verità, che vede ciascuno riaffermare non solo di avere la propria opinione, che è legittimo, ma di avere i propri «fatti», che invece non lo è.

Il suo libro termina con una frase del poeta Friedrich Hölderlin: «Ma dove è il pericolo, cresce anche ciò che dà salvezza». E lei spiega che per sconfiggere queste minacce le democrazie devono «vincere la battaglia delle narrazioni». Da dove comincia questa controffensiva?
Prima di tutto le democrazie devono ammettere di essere «mortali», che sono sotto minaccia e che è urgente proteggere l’integrità del loro spazio pubblico di fronte alla manipolazione dell’informazione, ora «potenziata» dall’intelligenza artificiale generativa. E, nella battaglia, non si devono perdere di vista i valori su cui si fonda la democrazia: troppo spesso si è voluto lottare contro la manipolazione dell’informazione limitando la libertà d’espressione, di opinione, la libertà di informare o di manifestare. Un approccio liberticida che si è rivelato controproducente. Sta invece a noi affidarci alla migliore arma a nostra disposizione: la trasparenza. In pochi anni (è nato nel 2021), l’esempio del Viginum, il servizio francese responsabile della vigilanza e della protezione contro le interferenze digitali straniere, dimostra poi che la sola denuncia pubblica delle operazioni di manipolazione può essere efficace nel limitarne gli effetti. Infine, c’è bisogno di rafforzare il sistema immunitario delle democrazie: media di qualità, educazione al pensiero critico, campagne di informazione per sensibilizzare i cittadini sulle tecniche di cui potrebbero essere vittime.

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