James Lee Burke, la memoria ostinata degli ultimi fantasmi
Geografie letterarie Per l’editore Jimenez «Robicheaux», la nuova indagine del detective cajun. Da decenni lo scrittore della Louisiana osserva il lato oscuro e le ferite della società del Sud degli Stati Uniti. Le ombre della coscienza e i volti smarriti nei ricordi si intrecciano alla storia dolente di una terra in cui la violenza e l’oppressione hanno tracciato segni indelebili. Un itinerario definibile con le parole di Flannery O’Connor sul «gotico sudista»: «Un’immagine che unisca un punto della realtà concreta e uno non visibile a occhio nudo»
Geografie letterarie Per l’editore Jimenez «Robicheaux», la nuova indagine del detective cajun. Da decenni lo scrittore della Louisiana osserva il lato oscuro e le ferite della società del Sud degli Stati Uniti. Le ombre della coscienza e i volti smarriti nei ricordi si intrecciano alla storia dolente di una terra in cui la violenza e l’oppressione hanno tracciato segni indelebili. Un itinerario definibile con le parole di Flannery O’Connor sul «gotico sudista»: «Un’immagine che unisca un punto della realtà concreta e uno non visibile a occhio nudo»
Lo Shadows on the Teche o più semplicemente The Shadows è un’antica magione costruita nella prima metà dell’Ottocento e che per oltre cento anni è passata da una generazione all’altra della medesima famiglia. È forse il simbolo più noto di New Ibera, un piccolo centro della Louisiana, non lontano dalla città di Lafayette e dall’Interstatale 10, una delle più lunghe del Paese che collega la costa del Pacifico alle metropoli del Golfo del Messico.
L’EDIFICIO DI MATTONI rossi e colonne di marmo, secondo il gusto neoclassico dell’epoca, dove negli anni tra le due guerre mondiali passarono, ospiti degli eventi mondani che vi avevano luogo, celebrità come i registi D. W. Griffith e Cecil B. De Mille e scrittori come Anaïs Nin e Henry Miller – quest’ultimo vi ambienterà anche il racconto Incubo ad aria condizionata, pubblicato nel 1945 – è però prima di tutto il simbolo di un oscuro passato. Per più di mezzo secolo, The Shadows fu l’epicentro di una vasta piantagione di canna da zucchero che impiegava centinaia di schiavi, tra uomini, donne e bambini, cui si deve anche, con enormi sacrifici, la costruzione dell’edificio; si stima che fossero duecento allo scoppio della Guerra civile nel 1861. I ricordi della famiglia Weeks, proprietari terrieri e schiavisti, che il luogo, ceduto nel 1958 al National Trust for Historic Preservation e divenuto una casa-museo solo negli anni Novanta, conserva ancora oggi sono quelli della sofferenza e del dolore, del male e sovente anche della morte che intorno a quell’edificio furono inflitti a generazioni di esseri umani.
Non ci si dovrebbe perciò stupire del fatto che secondo la stampa locale quella casa è ritenuta «uno dei luoghi maggiormente infestati da fantasmi in Louisiana». Né dimenticarsi di riflettere su quanto queste stesse ombre (shadows) emergano senza sosta nelle storie di uno dei maggiori scrittori del Sud degli Stati Uniti che, nato in Texas nel 1936, ha scelto a lungo di vivere a New Iberia, facendo dell’area del Bayou Teche, parte del vasto Delta del Mississippi, uno scenario dove la realtà sembra sfumare spesso in qualcosa che sfugge alla capacità di comprensione razionale dell’esistente, James Lee Burke. Considerato, a torto, come un «semplice» autore di noir, Burke ha costruito fin dalla seconda metà degli anni Ottanta, e grazie ad una intensa produzione forte di una quarantina di romanzi articolati intorno a diverse serie e molteplici personaggi, un corpo narrativo efficace e affascinante dove la ricerca della verità, talvolta irraggiungibile, consente di indagare il lato in ombra dell’animo umano, ma, prima di tutto, l’oscurità e le drammatiche ferite che si celano nella memoria perduta delle regioni meridionali del Paese.
AL CENTRO di questo vasto tableau, dove si alternano poliziotti e avvocati texani, politici corrotti, tutori dell’ordine e criminali di New Orleans come delle paludi della Louisiana, emerge la figura di Dave Robicheaux, ex detective della omicidi della Big Easy ripiegato, in cerca di una tregua nella propria vita personale prima ancora che professionale, a New Iberia, dove lavora nell’ufficio dello sceriffo. Immerso in uno strabiliante scenario naturale che imprime il proprio ritmo al racconto, facendo sorgere dalla nebbia che avvolge il bayou ogni sorta di interrogativi e possibili minacce, Robicheaux prova a far luce su quanto gli sta intorno come se seguisse le tracce d’inchiostro sbiadite su una vecchia mappa della zona. Se James Lee Burke ci ha messo degli anni a veder pubblicato il suo primo romanzo, dopo aver fatto un po’ di tutto, dal camionista all’assistente sociale a Los Angeles fino all’insegnante di scrittura creativa in Kansas, lo stralunato detective cajun che si deve alla sua fantasia è decisamente un sopravvissuto. Alla guerra, all’alcol, alle perdite che hanno segnato la sua intera esistenza.
Robicheaux è un veterano del Vietnam, e la giungla in cui ha ucciso e ha visto uccidere gli torna in sogno con le sembianze delle paludi che lambiscono la sua casa; a fare da contrappunto alle indagini che sta svolgendo ci sono gli incontri degli Alcolisti Anonimi, e le «ricadute» che lo costringono ogni volta a un ruvido faccia a faccia con se stesso; il suo incedere sembra temprato nel dolore, ha perso una dopo l’altra, per terribili incidenti o a causa di una violenza che era in realtà destinata a lui, le tre donne cui si è legato e l’unica luce che sembra ancora illuminarne il cammino è Alafair, la giovane salvadoregna che ha salvato dalla morte, ha adottato, cresciuto e non smette di tenere al riparo da ogni sorta di pericolo.
Tutto in Robicheaux parla della perdita e della necessità di ricostruire costantemente la memoria di quanto è stato per tentare di dare un senso a ciò che si sta vivendo, riannodando intimamente il passato al presente. Le ombre della coscienza, i volti smarriti nei ricordi, le prove dolorose cui il detective si sottopone si intrecciano così alla memoria dolente di una terra in cui la violenza e l’oppressione hanno tracciato segni indelebili, anche se non sempre visibili a prima vista.
FIN DAI PRIMI ROMANZI, dopo il debutto con Pioggia al neon (1987), nelle storie del detective della Louisiana fanno la loro ricorrente comparsa fantasmi che evocano il passato, sembrano stringere in un unico abbraccio l’estrema razionalità e l’abbandonarsi al sogno che caratterizzano l’uomo. Come i soldati confederati di L’occhio del ciclone (1993) – portato sullo schermo nel 2009 da Bertrand Tavernier -, la cui apparizione spingerà Robicheaux ad indagare sull’omicidio, rimasto insoluto, di un giovane afroamericano colpito alle spalle mentre fuggiva lungo le paludi. O, ancora, i malvagi di Il sale della terra (2013) e A private cathedral (2020), quest’ultimo ancora inedito nel nostro Paese, dove la violenza e il razzismo appaiono in grado di varcare la soglia del tempo e dello spazio tracciando una linea ambigua tra i soprusi di oggi e, addirittura, il fascismo italiano degli anni Trenta.
Ma, quale ne sia la forma concreta, in ogni storia di Burke ciò che è stato torna a misurarsi con quanto sta accadendo ora per far risaltare aspetti significativi ma non sempre evidenti. E, in questo, i primi fantasmi con i quali è costretto a misurarsi Robicheaux sono inevitabilmente quelli che cova in sé, le ombre che si stagliano ad oscurare ogni promessa di redenzione. Per definire l’itinerario di James Lee Burke possono forse tornare utili le parole che Flannery O’Connor dedicò agli autori del «gotico sudista» nei testi raccolti nel volume Nel territorio del diavolo. Si tratta di qualcuno, scriveva l’autrice de Il cielo è dei violenti, che «è in cerca di un’immagine che unisca e combini o incarni due punti; un punto è nella realtà concreta e l’altro è un punto non visibile a occhio nudo, ma nel quale crede profondamente, per lui davvero altrettanto reale quanto quello che vedono tutti».
DEL RESTO, l’intera traiettoria compiuta fin qui dal protagonista delle storie di Burke, si è svolta all’insegna della ricerca di un senso che non si può cogliere per intero se non guardando nella metà oscura di se stessi e tra quelle tracce impolverate che il passato ha lasciato intorno a noi. Se il debutto del detective è avvenuto nelle strade bellissime e decadenti del Vieux Carré di New Orleans oltre trent’anni fa, l’approdo attuale – testimoniato da Robicheaux (pp. 462, euro 22, traduzione di Gianluca Testani), pubblicato dall’editore Jimenez cui si deve anche la raccolta di Burke Gesù dell’uragano (2022) -, è nel segno di un’evoluzione che conserva lo spirito e lo sguardo del personaggio. Se il razzismo e il privilegio bianco che hanno plasmato la storia della Louisiana restano sempre sullo sfondo, ora Robicheaux deve vedersela con le nuove minacce che si affacciano all’orizzonte, un «piccolo Trump» che cresce nella politica locale, connivenze e pregiudizi che rendono difficile indagare sulla morte violenta di giovani donne, ricatti economici che rendono prigioniera una società che si vorrebbe fondata sulla libertà. Ma, ancora una volta, sarà scrutando il verde straziante del bayou in cerca di segni e cercando di individuare uno dei volti che gli appaiono, confusi, tra la veglia e il sonno, che il detective troverà la sua strada verso una qualche forma di verità.
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