Cultura

Nella nebbia di Milano rivive il mito del giallista che turbava il regime

Nella nebbia di Milano rivive il mito del giallista che turbava il regimePaolo Stoppa interpreta il commissario De Vincenzi

Noir italiano «Le verità spezzate» di Alessandro Robecchi, per Rizzoli. Un maestro del cinema indaga sull’assassinio nel 1944 di Augusto De Angelis. Le inchieste del commissario De Vincenzi, creato dallo scrittore, mostravano un’Italia molto diversa da quella descritta dalla propaganda fascista: una sorta di realtà elitaria, vagamente cosmopolita, ambigua e morbosa, un orizzonte intrinsecamente noir ma molto lontano da qualunque ipotesi di «nazionalizzazione delle masse»

Pubblicato circa 12 ore faEdizione del 9 ottobre 2024

Un’indagine nell’indagine, un giallo nel giallo, ma, soprattutto, un riconoscimento al valore della libertà e al potere della letteratura, sempre e comunque scomoda. C’è da credere che con Le verità spezzate, in libreria per Rizzoli (pp. 266, euro 16), Alessandro Robecchi abbia voluto prima di tutto rendere omaggio ad uno dei «padri» del romanzo poliziesco italiano, quell’Augusto De Angelis, oggi probabilmente sconosciuto ai più, ma che segnò, nell’epoca dei telefoni bianchi, il debutto in grande stile della letteratura di genere nostrana presso un pubblico abituato agli autori anglosassoni.

Ma per farlo, da giallista curioso e colto quale è, Robecchi non si è limitato a far rivivere il creatore del commissario De Vincenzi, capo della squadra mobile di Milano, il protagonista delle storie di De Angelis, portato sul piccolo schermo nella seconda metà degli anni Settanta da Paolo Stoppa, ma ha costruito intorno alla sua traiettoria di vita, e soprattutto alla sua tragica morte, una vera e propria indagine. Tanto da poter utilizzare nel sottotitolo del libro la definizione di «cold case degli anni Quaranta».

A GUIDARE IL LETTORE alla scoperta della figura di De Angelis, morto a Como nel luglio del 1944 in conseguenza dell’aggressione subita a Bellagio ad opera di uno o più repubblichini, era appena stato scarcerato dopo aver scontato diversi mesi di detenzione a causa di alcuni suoi articoli antifascisti pubblicati dopo la caduta di Mussolini e prima dell’8 settembre, è il regista Manlio Parrini, che dopo aver annunciato il suo ritiro dalle scene, decide che la sua rentrée avverrà proprio con un film dedicato al grande giallista dimenticato degli anni Trenta. E anche questa non è certo una casualità: il capolavoro di Parrini, «il Maestro» per pubblico e critica, si intitola infatti Le verità spezzate, proprio come il romanzo di Robecchi.

Quel film, e la storia che Parrini intende raccontare, analizzano le porosità di ciò che consideriamo vero e, al tempo stesso, indagano i confini della libertà, il modo in cui a volte le nostre idee possono risultare scomode anche più di quanto deliberatamente abbiamo scelto che siano. «La verità – riflette il regista – non esiste, la libertà è una convenzione, si allarga e si restringe a seconda del periodo storico, dell’ottusità di chi comanda, della volgarità di chi la vieta e la ostacola».

Mentre Parrini raccoglie carte e elementi sulla vicenda di De Angelis, l’anziana proprietaria della villa milanese nella cui dependance vive da tempo viene uccisa misteriosamente. L’uomo si trova ad essere un testimone involontario di un delitto proprio quando sta cercando di far luce su un altro crimine commesso tanti anni prima. Così come si interroga su quanto accaduto alla donna, ereditiera di una fortuna colossale ma dai contorni tutt’altro che limpidi, Manlio Parrini ci introduce al «mistero» di Augusto De Angelis, inviso al regime, al punto di essere assassinato, forse più per ciò che rappresentava che per le sue idee.

LE INDAGINI del commissario De Vincenzi mostravano del resto un’Italia molto diversa da quella descritta dalla propaganda fascista: una sorta di realtà elitaria, vagamente cosmopolita, ambigua e morbosa, un orizzonte intrinsecamente noir ma molto lontano da qualunque ipotesi di «nazionalizzazione delle masse». La censura interveniva qui e là a stemperare le atmosfere troppo inquietanti, perché le storie di De Angelis rientrassero nei canoni di crimini pur sempre risolvibili, come si richiede in una realtà totalitaria, ma la tempra del grande narratore non ha mai sofferto più del dovuto di tali occhiute intrusioni.

La prima, forse la vera forma di resistenza che lo scrittore aveva adottato, per sopravvivere e sfuggire ai debiti prima di tutto, era perciò stata principalmente lo stesso scrivere, convinto che, al centro delle sue storie, ci fosse la sincera constatazione che «ognuno di noi, oggi, può essere un assassino o un assassinato».

SU QUESTA INEDITA eredità culturale indaga Parrini, e con lui Robecchi, mentre in una Milano senza tempo nella nebbia che tutto nasconde sembra di poter scorgere l’avvicinarsi della figura di De Vincenzi che cammina assorto nei suoi pensieri e con il piglio un po’ da burbero che lo ha reso irresistibile.

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