Dall’Africa a Bologna vividi desideri al Cinema Ritrovato
Festival La 37a edizione della rassegna, più affollata che mai, tra i film politici di Ousmane Sembène e l’omaggio a Anna Magnani. Le proiezioni in piazza, «Bellissima» di Visconti, le Attualità senegalesi
Festival La 37a edizione della rassegna, più affollata che mai, tra i film politici di Ousmane Sembène e l’omaggio a Anna Magnani. Le proiezioni in piazza, «Bellissima» di Visconti, le Attualità senegalesi
Del cinema in Africa diceva che doveva essere autoprodotto, realizzato da «noi africani» senza interferenze alcune sia tecniche che di budget, e che doveva riuscire a comunicare a tutti. La sua scommessa erano film critici e didattici, secondo la «lezione» di Rossellini, il suo riferimento, con cui affrontare soggetti sociali, religiosi, politici, etici resi spesso dei tabù, per contribuire a una discussione collettiva.
ERA DA QUI che Ousmane Sembène, morto nel 2007, aveva iniziato il suo lavoro di filmmaker, anche scrittore, resistente, prima di fare film portuale e sindacalista, pioniere di un immaginario antagonista – e padre morale del cinema africano la cui strada era già stata aperta da alcune figure leggendarie come il tunisimo Albert Samama Chikly (sul quale c’è un bel libro curato da Mariann Lewinsky), o in area sub-sahriana, e ex francese, dal connazionale di Sembène poi suo biografo Paulin Soumanou Vieyra, autore del primo cortometraggio senegalese Afrique sur Seine, Africa sulla Senna, un racconto di viaggio di alcuni studenti africani a Parigi. E Ousmane Sembène e il cinema dell’Africa sono tra i protagonisti del Cinema ritrovato, il festival bolognese che in questa sua edizione numero 37 sembra avere attirato ancora più spettatori, con proiezioni quasi tutte sold out, affollate da un pubblico cittadino e internazionale, di giovanissimi e di addetti ai lavori. Domenica per vedere su grande schermo Un dollaro d’onore (Rio Bravo, 1959) di Hawks la coda era infinita, e la sera per Bellissima (1951) – all’interno della sezione dedicata a Anna Magnani – film del cuore di Nan Goldin, a sua volta al centro di un omaggio, che lo ha presentato a Piazza Maggiore, così piena di gente che in moltissimi si sono seduti in terra, sui bordi dei marciapiedi ancora caldi dal sole estivo della giornata, o su sedioline portate da casa, o ancora agli ambitissimi tavolini del bar che corrono lungo il recinto delle proiezioni. È certo che l’occasione di vedere quello che rimane il miglior film (e quello più disturbante) di Luchino Visconti su uno schermo così grande è unica, e insieme dimostra il desiderio di cinema ancora vivo e vitale – nonostante la crisi delle sale – e prima ancora l’importanza di una struttura e di investimenti anche economici nel territorio che sono alla base di una realtà come il Cinema ritrovato, non limitata all’evento o ai «tappeti rossi» ma risultato di un lavoro continuativo. Quella follia di Maddalena, esplosiva Anna Magnani settant’anni dopo rimane di inquieta attualità, come se avesse attraversato l’intera storia italiana fino a oggi, cambiando di classe, di luoghi, di ambizioni, di strumenti ma con la stessa ostinazione. La ricerca disperata del successo per la piccola figlia timida e non particolarmente incline a mostrarsi, che lei sogna invece «diva del cinema» per non dover lavorare come ha fatto lei mettendo via il centesimo e vivere fra quel popolo di periferie romane da cui si sente distante, sembra essere passata per Zecchini d’oro, Canzonissime, Non è la Rai, reality vari fino agli influencer del multiverso fluttuando dai teatri di posa di Cinecittà popolati di personaggi di ogni tipo, senza scrupoli, pronti a spillare soldi a madri come lei. Quasi a mettere a nudo qualcosa di profondo, oltre quell’«involuzione dei tempi» di cui Visconti – che scrisse la sceneggiatura insieme a Suso Cecchi d’Amico e Francesco Rosi da un soggetto di Cesare Zavattini – parlava allora.
TORNIAMO a Ousmane Sembène, di cui ricorre quest’anno il centenario della nascita (1923) per un secolo di cinema politico e innovativo: a questa Africa, e non solo, guarda dunque la sezione Cinema libero che raccoglie film restaurati da Senegal, Burkina Faso, Costa d’Avorio – e anche da Libano, Siria, Iran – tracciando una mappatura piuttosto differenziata. Tra questi le «Attualità senegalesi», con Ife-3ème Festival des Arts, un reportage realizzato dal Festival delle Arti nella città nigeriana da Paulin Vieyra, dove vediamo fra gli intervistati lo stesso Sembène e il premio Nobel Wole Soyinka. Le «Attualità senegalesi» sono state ritrovate nel 2017 a Dakar, nella sede abbandonata dell’ex-ministero dell’informazione, e come spiegano Tiziana Manfredi e Marco Lena, curatori del Progetto di salvaguardia e restauro degli archivi della Dci, Senegal, fanno parte di un corpus più ampio di archivi audiovisivi che sono quelli della Direzione cinema, al cui interno ci sono i cinegiornali del primo servizio di informazione del Senegal indipendente voluto dall’allora presidente Leopold Senghor. Un archivio che è in qualche modo una sorta di memoria del Paese dopo la sua indipendenza, e dei suoi immaginari – alla direzione dell’ufficio cinema il primo fu proprio Vieyra, di cui sempre nelle «Attualità senegalesi» c’è anche il magnifico Le Senegal et le festival mondial des arts nègres (1966), realizzato a Dakar che è insieme racconto dell’evento e esplorazione della capitale senegalese.
Da allora al film di Sembène di cui si è mostrata l’edizione restaurata sono passati undici anni: Ceddo è infatti stato girato nel 1977 – venne presentato al Festival di Cannes, nella selezione della Quinzaine. Ciò che affronta è già nel suo titolo, Ceddo, una parola che gli è valsa anche molti attacchi e una censura in Senegal. «Ceddo» è infatti il «popolo del rifiuto», coloro che non accettano di sottoporsi alla conversione forzata all’islam e che non accettano neppure la nuova schiavitù del post-colonialismo europea e cristiana. Per questo sono perseguitati, imprigionati, marchiati a fuoco e resi appunto schiavi come e più degli altri che devono piegarsi ai voleri dei sovrani africani o stranieri, religiosi e fanatici, lavorando senza avere nulla per sé e dando a loro ogni raccolto o frutto delle fatiche quotidiane. I «ceddo» sono coloro che non hanno rinunciato alla lotta, che non accettano di non poter determinare le loro esistenze, che rifiutano ogni condizionamento esercitato con più forza nel nome di un dio cristiano, animista o islamico che sia. Per questo rapiscono la principessa figlia del sovrano, Dior, chiedendo un immediato cambiamento politico.
Le donne rappresentano per me l’anima contemporanea dell’Africa, sono loro a compiere un percorso verso nuove consapevolezze Ousmane SembèneÈ CERTO che anche qui, l’intuito cinematografico di Sembène, sempre innovativo esteticamente e duro politicamente, aveva illuminato qualcosa nel suo divenire, una storia che è ora attualità nel Continente ancora nel mezzo di strategie di sfruttamento e controllo di ricchezze, di alleanze tra stati, multinazionali, governi, capitalismi globali. Ceddo è un western surreale, un teatro della storia (passata, presente) dell’Africa ambientato tra il XVII e il XIX secolo, ma fuori del tempo per la sua immutabile contemporaneità, che riverbera anche nella distanza tra quei nuovi immaginari africani che si stanno affermando con nuove generazioni di registe e registi in questi ultimi anni.
La questione della religione e del suo intreccio devastante con la «tradizione» come strumento di oppressione, specie verso alcune parti della società, ritornerà negli anni a venire nelle opere del regista senegalese fino all’ultimo film, Moolaadé (2007)– fu presentato a Cannes ma non in concorso – che racconta la rivolta di un gruppo di donne contro la pratica dell’escissione. Diceva (al «manifesto») Sembène: «Le donne rappresentano per me l’anima contemporanea dell’Africa, sono loro a compiere un percorso verso nuove consapevolezze. La società cerca di imporre delle regole, e gli uomini che sono molto più conservatori vogliono che tutto rimanga bloccato».
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