«Se non si prova a essere clandestini non si può capire cosa vuol dire cercare un’altra vita, cosa vuol dire essere respinti quando dall’altra parte c’è la morte», ha detto ieri la senatrice Liliana Segre, presentando il testo della Commissione d’inchiesta sui discorsi d’odio. Parole che raccontano la storia di tante persone in fuga da guerre e razzismo, costrette a subire violenze e detenzioni. Come David Oliver Yambio, 24enne del Sud Sudan, che nelle stesse ore presentava all’Italia la richiesta d’asilo con cui spera di mettere fine alla sua personale odissea. Dopo aver subito tre respingimenti e diversi rifiuti ad accedere ai canali legali di uscita dalla Libia, nei giorni scorsi ha attraversato il mare.

YAMBIO SA BENE cosa significa «essere clandestini», non solo perché ha vissuto questa condizione sulla propria pelle in Libia, ma anche perché di esclusione e soprusi subiti ha fatto terreno di organizzazione politica e solidarietà collettiva. Tra ottobre 2021 e gennaio 2022 ha guidato a Tripoli la protesta di circa 2mila rifugiati esplosa dopo i rastrellamenti nel quartiere di Gargarish e le detenzioni di massa nel centro di Al-Mabani. Per oltre 100 giorni ha animato il presidio permanente davanti agli uffici Unhcr della capitale libica da dove i migranti chiedevano alla comunità internazionale l’evacuazione verso un luogo sicuro.

IL SUO NOME è finito su aljazeera e altre testate, la sua voce è arrivata in Italia attraverso Radio3, il suo volto è rimbalzato sui social network. A chi gli chiedeva se non avesse paura di farsi riprendere mentre criticava autorità libiche, paesi europei e agenzie umanitarie, Yambio rispondeva: «Non ho più nulla da perdere. E neanche gli altri. Dobbiamo ottenere l’evacuazione».

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LA COMUNITÀ INTERNAZIONALE non ha voluto ascoltare quella richiesta d’aiuto. Nel corso della protesta tre persone sono state uccise. L’11 gennaio le milizie hanno circondato il presidio e arrestato 600 rifugiati. «Non mi hanno preso – ricorda Yambio – Ma il giorno seguente nel centro di Ain Zara, dove erano stati rinchiusi i manifestanti, sono arrivati dei libici in divisa con i nomi dei leader della protesta, compreso il mio». Era partita la caccia. Per mesi Yambio ha vissuto nascosto, cambiando continuamente casa, quartiere, numero di telefono. Ha continuato a denunciare quello che era accaduto ai suoi compagni e aiutare chi aveva bisogno.

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PER LUI LA SITUAZIONE diventava ogni giorno più pericolosa, ma non voleva salire di nuovo su un barcone. Aveva già provato ad attraversare il Mediterraneo tre volte. La prima, nel gennaio 2019, è stato soccorso dalla nave cargo Lady Sham ma invece dello sbarco in un porto sicuro è stato respinto nella città di Misurata. Ha trascorso sette mesi nella prigione di Karareem. Le altre due è stato intercettato dalla «guardia costiera» libica, riportato a Tripoli e da lì rinchiuso nei centri di Tarik-al-Sikka, per cinque mesi, e Al-Mabani, altri due.

YAMBIO È NATO nel 1997 in Sud Sudan. A 19 anni è fuggito dalla guerra civile e dalla persecuzione politica. Ha trascorso due anni in un campo profughi di N’Djamena, capitale del Ciad, dove ha ricevuto lo status di rifugiato. Poi è ripartito verso la Libia. Lì si è registrato presso l’Unhcr di Tripoli sperando di accedere al «reinsediamento». I posti concessi dai paesi terzi, però, sono pochissimi e la priorità va a donne, bambini e famiglie. Dopo i tentativi di superare il Mediterraneo, i respingimenti e le detenzioni ha lavorato alcuni mesi per la stessa Unhcr, poi per l’Ong italiana Cesvi e delle organizzazioni libiche impegnate nella difesa dei diritti umani.

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QUANDO È ESPLOSA la protesta ha conosciuto varie realtà sociali e religiose europee. Con l’aiuto dell’Asgi ha chiesto all’ambasciata italiana a Tripoli il rilascio di un visto di ingresso per motivi umanitari. L’autorità diplomatica, invece, lo ha invitato a fare domanda per il corridoio umanitario attivato nell’aprile 2021. Anche questa è una via stretta: lo scorso anno prevedeva 500 posti. Finora sono arrivate 189 persone. I rifugiati in Libia sono circa 40mila. Oltre ai rischi che ognuno di loro corre ogni giorno, Yambio era anche ricercato dalle milizie. Così ha presentato un ricorso d’urgenza al Tribunale di Roma chiedendo il visto. Attraverso questa strada lo scorso gennaio due giornalisti afghani in fuga dai talebani sono atterrati a Roma. Ma un mese dopo il Tribunale ha annullato l’ordinanza che aveva riconosciuto quel canale di salvezza e da allora le richieste analoghe hanno ottenuto solo dinieghi. Compresa quella di Yambio.

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RIMANEVA IL MARE. Ieri Mediterranea ha annunciata il suo arrivo: «Il nostro fratello e compagno David Oliver Yambio, attivista di Refugees in Libya, ricercato dalle milizie libiche del Dcim e dell’Internal Security Forces, è finalmente arrivato in Italia». Adesso il ragazzo può guardare avanti: «Il mio sogno è ottenere i documenti, per la libertà di movimento e l’accesso all’educazione che mi è stata negata. Il mio sogno è la libertà di parola per continuare a lottare per le sorelle e i fratelli prigionieri nei centri in Libia e Nord Africa. Continueremo a lottare per avere ingressi sicuri per tutti i migranti. Questa è la mia missione»