Sul dramma che i migranti vivono in Libia si è detto e scritto molto. Agenzie Onu, Ong indipendenti e gli stessi rifugiati hanno squarciato il velo su una quotidianità di violenze, torture e omicidi. Anche naufragi e sbarchi ricevono un’alterna attenzione, offuscata di recente dall’arrivo dei profughi ucraini. Si parla meno, invece, delle opportunità e dei limiti dei canali legali di uscita dal paese nordafricano.

UN BILANCIO, a tratti impietoso, dell’intervento umanitario delle due principali agenzie Onu che si occupano di migranti è stato fatto da Medici senza frontiere (Msf) nel rapporto Fuori dalla Libia. Aprire canali sicuri per i migranti vulnerabili intrappolati in Libia. Una è l’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim), l’altra l’Alto commissariato delle Nazioni unite per i rifugiati (Unhcr). Schematicamente la loro competenza si può dividere così: l’Oim sui migranti economici (nel paese nordafricano ne sono stimati 600mila), l’Unhcr sui rifugiati (40mila quelli registrati nella sede di Tripoli).

QUESTE AGENZIE organizzano due dei tre tipi di canali legali di uscita dal paese. L’Oim si occupa dei cosiddetti «rimpatri volontari umanitari» (sigla inglese: Vhr), destinati a chi manifesta l’intenzione di tornare nel proprio paese e finanziati dall’Ue. Secondo Msf, però, la definizione di «volontari» è «altamente discutibile» dal momento che molti migranti non hanno alternative, soprattutto quando sono detenuti a tempo indefinito nei centri dove subiscono violenze di ogni tipo e perfino forme di schiavitù. Per loro «i Vhr sono un modo importante per uscire dalla detenzione», si legge nel rapporto. Che denuncia i lunghi tempi di attesa. Nel 2021, a causa del Covid-19, i voli sono stati ripetutamente bloccati e meno di 2mila persone hanno lasciato la Libia in questo modo. Tra il 2017 e il 2021 sono state 50mila, mentre altre 10mila rimangono in attesa di partire.

IL SECONDO canale legale di uscita è il reinsediamento verso paesi terzi sicuri, in Europa e Nord America. Gestito dall’Unhcr, in genere funziona attraverso il Meccanismo di transito di emergenza (Etm) con cui i richiedenti asilo sono portati nei campi in Niger e Ruanda. Questo strumento è destinato a soggetti perseguitati nei paesi di origine, che non possono tornare a casa. I problemi sono numerosi. In primis l’Unhcr accetta solo le persone di nove nazionalità: Iraq, Palestina, Siria, Yemen, Eritrea, Etiopia, Somalia e Sud Sudan. Tutte le altre sono automaticamente escluse, sebbene l’asilo politico sia un diritto riconosciuto su base individuale e non nazionale. Del resto l’Unhcr ha ribadito spesso che «il reinsediamento non è un diritto». Si tratta quindi di una sorta di concessione. La priorità, poi, viene data a donne, minori e famiglie in base al criterio della «vulnerabilità».

IN LIBIA, però, tutti i migranti rischiano continuamente la vita, dentro e fuori i centri di prigionia. Lo hanno gridato da ottobre 2021 a gennaio 2022 i rifugiati accampati davanti alla sede Unhcr di Tripoli per chiedere l’evacuazione in un luogo sicuro, prima di essere arrestati in massa. Il paese nordafricano, del resto, considera «illegali» tutti gli stranieri presenti sul territorio, anche perché non ha firmato la Convenzione di Ginevra. Secondo Msf le pressioni internazionali per spingere Tripoli a farlo sono state «limitate» e questo limbo è usato come una giustificazione del fatto «che l’Unhcr non è in grado di applicare i propri standard». Importanti ostacoli sono anche i tempi di attesa, lunghissimi e indefiniti, e il numero di reinsediamenti concessi dai paesi terzi, estremamente contenuto. Tra il 2017 e il 2021 dalla Libia sono stati reinsediati 7.500 rifugiati: meno di 2mila ogni anno. Nello stesso periodo, che non a caso coincide con quello del memoradum italo-libico, almeno 8mila persone sono morte nel Mediterraneo centrale e altre 80mila sono state intercettate dalla sedicente «guardia costiera» di Tripoli (dati: Oxfam).

PER TALI RAGIONI Msf chiede a Ue e paesi membri di ampliare il terzo canale, quello dei «percorsi complementari». Sono tre: visti umanitari, ricongiungimenti familiari e corridoi umanitari. Questi ultimi sono stati aperti nel 2021 da alcune organizzazioni della società civile italiana per trasferire 500 persone in un anno. Finora ne sono arrivate solo 189, ma esponenti del governo li hanno ripetutamente utilizzati come contrappeso del sostegno alle milizie libiche.

È PROPRIO QUESTO il nodo gordiano dei canali legali di uscita dalla Libia: per le autorità italiane ed europee restano solo l’altra faccia delle politiche securitarie. Così a fronte di poche migliaia di persone trasferite nei paesi sicuri, decine di migliaia sono costrette ogni anno a rischiare la vita in mare, andando incontro a naufragi, intercettazioni e di nuovo detenzioni e violenze.