Internazionale

«Crediti speciali ai soldati: gli atenei israeliano aiutano a proseguire nel genocidio di Gaza»

Uno degli edifici dell’Università di Al-Azhar foto Ap/Omar IshaqUno degli edifici dell’Università di Al-Azhar a Gaza – Ap/Omar Ishaq

Israele/Palestina Intervista all'antropologa israeliana Maya Wind: «Le università sono complici: hanno impedito la ricerca critica sul 1948. Gli israeliani sono ignoranti sulla Nakba, quindi cosa gli impedisce di compierne un’altra?»

Pubblicato circa 3 ore faEdizione del 20 novembre 2024

«Quando Israele prende di mira intenzionalmente il sistema educativo palestinese, bombardando le università a Gaza o facendo implodere gli edifici ormai vuoti, quando chiaramente non si tratta di un incidente ma di uno scolastidicio intenzionale, nessuna università in Europa dice nulla. Perché stanno proteggendo il loro stesso colonialismo. Criminalizzare o reprimere i propri studenti è prima di tutto una forma di protezione di se stessi, prima che di Israele».

Si rivolge prima di tutto al mondo accademico occidentale l’antropologa israeliana Maya Wind, autrice del libro Torri d’avorio e d’acciaio, pubblicato in Italia da Alegre. La incontriamo a Roma dove oggi presenterà il suo lavoro alla Sapienza.

Nel libro descrive come l’accademia israeliana funga da laboratorio del progetto di colonialismo d’insediamento israeliano, non solo sul piano dello sviluppo di tecnologie militari ma anche su quello della produzione culturale: reinterpretazione di fatti storici, di definizioni legali, di pensiero filosofico.

I due elementi vanno pensati come parte di un unico progetto di controinsorgenza e di repressione di stato del movimento anti-coloniale in Palestinese. Le università hanno un ruolo in entrambi i volti di questo progetto: da una parte laboratorio militare vero e proprio per soffocare il movimento di liberazione palestinese, attraverso programmi specifici nell’addestramento dei soldati, delle unità di combattimento, dei membri dell’intelligence, e attraverso lo sviluppo e la realizzazione di armi e tecnologie; dall’altra laboratorio di idee. L’accademia è impegnata in una guerra di ideologie e di produzione di conoscenza. Lo vediamo anche a livello internazionale: ai tentativi di rendere Israele responsabile di fronte alla Corte internazionale e alla Corte penale replicano anche le facoltà di legge israeliane, che lavorano dentro l’apparato per assicurarsi che l’impunità prosegua. Allo stesso tempo modo, l’accademia israeliana risponde anche alla mobilitazione studentesca nel mondo, in particolare in Occidente: le università israeliane sono mobilitate per delegittimare quei movimenti e criminalizzarli e quest’azione è parte del sostegno al regime di apartheid, al prosieguo del genocidio e della pulizia etnica.

L’assenza di un dibattito storico sulla Nakba rientra in tale guerra delle idee?

L’espulsione e le uccisioni di massa di palestinesi degli ultimi 13 mesi sono molto più ampie di quanto avvenuto nel 1948. La scala è inimmaginabile. In tale contesto, a 76 anni dalla prima Nakba, le università sono complici perché hanno impedito lo studio e la ricerca critica su quanto avvenuto allora. Gli israeliani sono ignoranti sulla Nakba, quindi cosa gli impedisce di compierne un’altra? A maggio gli studenti palestinesi dell’Università di Haifa hanno chiesto di poterla commemorare nel campus, di poter parlare della Nakba come progetto che continua. L’università glielo ha impedito. Nei luoghi del sapere e dell’educazione, dello studio della storia per comprendere il presente si vieta quel tipo di conversazione. Cancellare la Nakba significa anche cancellare l’identità palestinese, per cui quell’evento è centrale anche nel “semplice” status legale, penso ai palestinesi cittadini israeliani che non lo sarebbero senza la Nakba. Non si può comprendere la società palestinese senza la Nakba.

Nel libro lei tratta del ruolo storico dei movimenti studenteschi israeliani di destra nella repressione delle voci critiche dentro i campus, siano studenti o docenti. Nell’ultimo anno questo fenomeno è cresciuto? E che sostegno ottiene dai vertici accademici?

La partecipazione al progetto di controinsorgenza opera anche dentro i campus: quale tipo di conoscenza reprimere, quale produrre, chi far parlare. Come nel caso della professoressa Nadera Shalhoub-Kevorkian, una delle più note e stimate docenti palestinesi: ha dovuto lasciare definitivamente la Hebrew University dopo 30 anni di cattedra. Ne andava della sua sicurezza personale, a causa della campagna contro di lei che la sua stessa università ha alimentato e che ha portato al suo arresto. È ancora sotto inchiesta per incitamento contro lo Stato di Israele. Il suo caso racconta una storia più grande: Israele sta epurando i palestinesi. È sempre successo ma ora siamo di fronte a un’escalation e all’espulsione di docenti palestinesi. È un messaggio per tutti gli altri, soprattutto i docenti non strutturati: Shalhoub-Kevorkian è nota, il suo status avrebbe dovuto proteggerla. E poi ci sono gli studenti, molti sono stati sospesi, espulsi, costretti a lasciare i dormitori. Sono stati gli atenei a segnalarli alla polizia, e nemmeno per iniziative pubbliche ma per post sui social.

Con l’apertura del nuovo anno accademico si sono registrati cambiamenti nelle politiche interne o nei curricula?

Per individuare cambiamenti strutturali dobbiamo aspettare le ricadute sui temi di ricerca, non necessariamente si opera con misure ufficiali, soprattutto in un momento in cui gli occhi del mondo stanno guardando ai campus israeliani e crescono le richieste di boicottaggio. Quello che è già accaduto, a settembre, è l’espansione dei privilegi riservati agli studenti soldati: crediti speciali per aver operato a Gaza, borse di studio, autorizzazione a non seguire corsi o produrre elaborati. Di fatto le università permettono alle forze armate di proseguire nella commissione di un genocidio, è una complicità diretta se garantisci a chi uccide degli avanzamenti di carriera.

Venendo all’Occidente, la resistenza del mondo accademico a riconoscere il ruolo di quello israeliano nel regime di apartheid e nel progetto di colonialismo d’insediamento è dovuto anche alla visione razzista e coloniale di tali istituzioni? Al considerare cioè l’accademia israeliana e bianca intrinsecamente superiore a quella palestinese?

Il razzismo nel mondo accademico occidentale è profondamente radicato. Molti dei vertici e dei membri dello staff di università europee e statunitensi mi parlano dell’eccellenza dell’accademia israeliana e delle relazioni profonde che intrattengono. Non li ho mai sentiti parlare di relazioni con quelle palestinesi. Non hanno rapporti, non danno finanziamenti, non prevedono scambi né con gli atenei palestinesi né più in generali con quelli arabi. È una gerarchia coloniale: il colonialismo europeo è ancora molto consolidato dentro il sistema dell’educazione. Riconoscere come legittima la liberazione palestinese mina la persistenza del colonialismo europeo.

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