Le recenti dimissioni del primo ministro libanese, il sunnita Saad Hariri, e la possibilità di un suo nuovo governo formato solo da tecnici sono seguite all’impossibilità di attuare le riforme proposte il 21 ottobre: taglio degli stipendi dei parlamentari, aiuti ai più indigenti, nuove tasse verso le banche e un nuovo programma di privatizzazione per lottare contro il malfunzionamento dei servizi pubblici essenziali.

Della situazione attuale abbiamo parlato con il celebre storico ed ex ministro delle finanze, il libanese Georges Corm.

Qual è la situazione politica in Libano, con le proteste di queste settimane?

Attualmente il nostro paese attraversa un periodo di proteste a causa soprattutto della crisi economica, di una progressiva penuria di servizi basilari, con oltre un quarto dei libanesi che vive al di sotto della soglia di povertà in uno dei paesi considerati più corrotti al mondo. Bisogna ricordare, però, che dopo un lungo periodo di divisioni, di quasi un anno, siamo riusciti ad avere un governo di unità nazionale a causa soprattutto del mancato impegno nella ricerca di una soluzione di salvaguardia nazionale da parte di Saad Hariri. Senza dimenticare le continue pressioni saudite nei suoi confronti come il suo tentato rapimento, voluto da Mohamed bin Salman, circa due anni fa.

Queste proteste riguardano comunque una costituzione legata al periodo coloniale e una divisione delle cariche per confessioni, cosa che ha portato a un utilizzo della politica come strumento di corruzione e di clientelismo. Lo scontro è anche il frutto delle divisioni continue tra i due schieramenti politici (8 marzo sostenuto da Damasco e Teheran e 14 marzo sostenuto dall’Arabia saudita e dai paesi del Golfo, ndr) e delle discussioni relative ai problemi del paese: la lotta alla corruzione, il ritorno dei rifugiati siriani e i rapporti con Damasco. Cosa già avvenuta nel 2000 con il presidente Emile Lahoud. Bisogna ricordare che gli uomini politici anti-siriani di oggi erano i più ferventi sostenitori della Siria quando dominava il Libano con il consenso di Usa e Arabia saudita

Georges Corm

 

Le proteste ripropongono un tema delicato relativo al condizionamento di fondi in cambio del disarmo di Hezbollah?

Niente di nuovo riguardo al piano di destabilizzazione americano. Le richieste di alcuni paesi occidentali – che non sono nuove – di disarmare Hezbollah non hanno alcuna possibilità di essere prese in considerazione. Il partito sciita è parte integrante sia della difesa nazionale che della vita politica. Il consenso nazionale riguardo allo slogan «il popolo, l’esercito e la resistenza (con il quale viene anche denominato Hezbollah, ndr)» è nella dichiarazione di governo, approvata dal parlamento libanese.

Quali rischi per il Libano nel conflitto che vede contrapposti l’Iran a israeliani e sauditi?

I rischi sono concreti e gli stessi ormai da anni. L’Arabia saudita e l’Iran hanno entrambe la loro rappresentanza politica e clientelare in Libano, le loro zone di influenza geografica e le loro roccaforti. Il movimento Futuro (del premier Hariri) è pro-saudita, al contrario la Corrente Patriottica Libera del presidente Aoun e il partito Amal del presidente del parlamento Berri sono alleati di Hezbollah. La differenza è che ultimamente l’Arabia saudita ha «messo in sordina» la sua politica di normalizzazione nei confronti di Israele. Una scelta legata al suo indebolimento, a livello regionale e internazionale, del principe ereditario Mohamed bin Salman a causa del delitto Khashoggi. In questo contesto suo padre Salman al Saud, persona molto più moderata ed esperta, ha ripreso le redini del governo nel paese. Le pressioni esistono e soprattutto in questo periodo di proteste tornano in una maniera più trasversale con l’appoggio a quelle formazioni politiche che paradossalmente hanno giovato di questo sistema clientelare: le Forze libanesi di Geagea, le Falangi di Gemayel e il Partito socialista progressista di Jumblatt.

Qual è il bilancio della politica di Trump in Medio Oriente?

Il bilancio è deficitario. Gli Usa non sono più apprezzati neanche dal potere economico arabo a causa della loro continua azione di destabilizzazione. Il sostegno incondizionato di Washingotn a Israele, in questi decenni, ha politicamente discreditato gli Usa davanti all’opinione pubblica araba. Riguardo a Trump e alla sua posizione nettamente a favore di Tel Aviv iniziano a vedersi alcune voci discordanti anche all’interno del Senato e della Camera nel suo paese. Come le critiche nei confronti delle lobby israeliane e sioniste negli Stati uniti che stanno progressivamente aumentando. In quest’ottica l’«Accordo del secolo» per i palestinesi non ha alcuna possibilità di realizzarsi, fortunatamente. Basta guardare cosa avviene in Palestina: a Gaza con le proteste dei palestinesi che sacrificano la loro vita per attraversare la frontiera ed entrare nella Palestina occupata o in Cisgiordania dove aumentano i gesti quotidiani di resistenza. Trump, per la sua incapacità, finora ha ottenuto risultati opposti a quelli desiderati come è avvenuto in Siria recentemente.