Oltre il fiume Awali, Israele sposta ancora il confine libanese
Libano Continui ordini di evacuazione nel sud del paese. Aumenta l’intensità dei bombardamenti israeliani, decine gli uccisi. E Tel Aviv chiude al cessate il fuoco
Libano Continui ordini di evacuazione nel sud del paese. Aumenta l’intensità dei bombardamenti israeliani, decine gli uccisi. E Tel Aviv chiude al cessate il fuoco
Oltre il fiume Awali: è questo l’ordine di evacuazione per i libanesi che vivono nel sud del paese diffuso dal portavoce dell’esercito israeliano Avichay Andree. Ordine non nuovo in verità, ma che l’esercito ha rinnovato ieri in molti villaggi del Libano meridionale. L’Awali, a sessanta chilometri dal confine israeliano, si trova ben oltre il più noto fiume Litani, quello della famosa risoluzione 1701 del 2006, dietro cui Hezbollah si sarebbe dovuto ritirare.
ISRAELE CONTINUA a bombardare il Libano e non solo. Sono oltre 3mila i morti e 14mila i feriti dall’inizio della guerra, tredici mesi fa, la maggior parte dalla fine dello scorso settembre. Ieri in serata un attacco nel governatorato di Akkar, nord del Libano, a Ain Yaacub ha distrutto una palazzina abitata da 33 persone: 24 libanesi rifugiati dal sud e nove siriani. Almeno dieci i cadaveri estratti finora dalle macerie e 14 i feriti.
L’ospedale di Halba, nelle vicinanze, ha lanciato un appello per ricevere donazioni di sangue. Scene quotidiane in due terzi del paese da oltre un mese. Undici morti e cinque feriti si sono registrati invece in un bombardamento a Saksakieh, Saida, «in maggioranza donne e bambini», riferisce il ministero della salute libanese. E Nabatieh, Tiro e Baalbek sono ancora nel mirino israeliano.
In Siria è stata bombardata la zona di Homs, dove l’esercito israeliano dice di aver centrato un deposito di munizioni di Hezbollah, all’indomani di un altro attacco alla periferia di Damasco che ha ucciso alcuni civili.
Hezbollah ha rivendicato ieri numerosi lanci di missili come quelli nel Golan occupato, nella regione di Krayot, a nord – contro la base militare di Zvulun – e a sud di Haifa – contro la base israeliana di Regavim – nel perimetro dell’operazione «Khaybar», lanciata in seguito all’uccisione del leader del partito-milizia Hassan Nasrallah il 27 settembre scorso.
La diplomazia intanto continua a muoversi e Israele manda segnali contrastanti rispetto alla possibilità di un cessate il fuoco. Il ministro degli esteri Gideon Saar aveva dichiarato ieri che «ci sono dei progressi, ci stiamo lavorando con gli americani» nel corso di una conferenza stampa a Gerusalemme. Contemporaneamente il portavoce di Hezbollah, Mohammad Afif, teneva una conferenza stampa proprio nella Dahieh, la periferia a sud di Beirut duramente colpita da Israele, anche per dare un segnale forte alla base del partito. Afif ha chiarito che «finora non c’è stata nessuna proposta ufficiale o specifica che sia arrivata al Libano o a noi».
IN SERATA però il neo ministro della difesa Israel Katz, subentrato a Yoav Gallant, licenziato dal premier israeliano il giorno in cui gli Stati uniti eleggevano il nuovo presidente, ha preso una nettissima posizione: «Non ci sarà alcun cessate il fuoco con Hezbollah»; se esistesse una proposta «che significasse la capitolazione di Hezbollah, che rispondesse a tutte le nostre condizioni (…), la prenderemmo certamente molto seriamente». Isaac Herzog, presidente di Israele, incontrerà in settimana Joe Biden per discutere della guerra in Libano e a Gaza, anche se Netanyahu guarda già all’amministrazione Trump.
Anche le potenze dell’area cercano una quadra. Nel summit arabo-islamico a Riyadh ieri, il ministro degli esteri saudita Faisal ben Farhan ha dichiarato che «il nostro principale obiettivo è quello di fermare la guerra. Non dobbiamo permettere alla comunità internazionale di chiudere gli occhi sui crimini israeliani. Manca un’assunzione di responsabilità da parte della comunità internazionale».
Pesa una grande incertezza sulle sorti del Libano che vive la guerra in assenza di un presidente della repubblica, con un governo ad interim e nella peggiore crisi finanziario-economica della sua storia. L’inverno ormai alle porte porterà altra sofferenza e altra frustrazione per il milione e 300mila sfollati interni che non hanno idea di quando torneranno a casa, e se la troveranno.
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