«Che senso ha studiare?». La guerra che arriva dal cielo ha cambiato Beirut
Libano La capitale libanese divisa tra solidarietà e antiche rivalità. Il rumore dei droni è continuo. E a sud e a est del Libano i bombardamenti sono quotidiani
Libano La capitale libanese divisa tra solidarietà e antiche rivalità. Il rumore dei droni è continuo. E a sud e a est del Libano i bombardamenti sono quotidiani
«Che senso ha studiare se prima o poi ci uccidono?». Lo chiede Aline, mercoledì pomeriggio, al suo professore di inglese Sami Feghali all’Università Antonina. «Mi ha gelato. Non ho saputo cosa risponderle. Lo ha detto con sarcasmo, con un sorriso affettato, per esorcizzare la paura, mordendosi le labbra. Ma io e lei, la classe tutta, sapevamo bene di cosa parlava e nessuno di noi ha saputo ridere. Un’ora dopo, quasi come dopo una premonizione, hanno bombardato Beirut per sette volte in un’ora e mezza, mentre facevamo lezione. Le finestre hanno tremato, noi siamo saltati dalle sedie. Da qui è vicinissimo».
L’università è a un paio di chilometri in linea d’aria dai bombardamenti, nella parte superiore di Hadath, una delle municipalità coinvolte. La parte leggermente più a valle è sciita e inglobata nella Dahieh, la periferia a sud di Beirut, la zona più colpita. «Siamo andati nel cortile» che guarda tutta Beirut «e abbiamo assistito allo spettacolo macabro delle colonne di fumo. Poi è calata la sera e abbiamo sentito solo le esplosioni». Beirut è sospesa in un vortice di sentimenti ancora non razionalizzati e la guerra ha già profondamente cambiato il volto della città.
HAMRA è una lunga coda di auto rumorose a qualsiasi ora del giorno, fino a sera però. Sono molti gli alberghi, le scuole adibite a rifugi, i palazzi privati messi a disposizione dei profughi interni arrivati nell’ultimo mese e mezzo. «Stiamo preparando cibo per tre scuole nel quartiere», racconta Khodor, gestore di Barzakh, caffé-libreria sulla strada principale del quartiere un tempo cuore culturale di Beirut. «Ci occupavamo di eventi, concerti, dibattiti politici…Hamra è morta da questo punto di vista».
Il caffé che oggi, come tante altre realtà, si dedica all’emergenza, è vuoto già nel primo pomeriggio e il contrasto è forte con il via vai in strada che si vede dai finestroni. «Verso le otto si svuota tutto. Non c’è più diversità in questa parte della città. La gente ha paura, non esce la sera».
È un altro mondo appena superata la Linea verde, quella tracciata durante la guerra civile libanese (1975-90) che separa Beirut ovest, dove si trova Hamra e la maggior parte delle aree ospiti, da Beirut est. Nei quartieri gestiti dai partiti cristiani della destra conservatrice, la normalità con cui la vita procede è sorprendente. Impossibile vedere sciiti. Si mischiano antichi rancori, la divisione comunitaria che nei momenti di crisi viene fuori con tutta la sua forza, l’empatia per i civili coinvolti nella crisi umanitaria, i discorsi sulle responsabilità di Hezbollah, quelle di Israele, e molto altro.
«NESSUNO affitta agli sciiti. Abbiamo paura che possano colpire anche le nostre zone», dice Tony Khouri, proprietario di un condominio a Geitawe. Nell’androne ha scritto un cartello che invita «i condomini a non subaffittare e a non ospitare persone in casa senza preavviso».
Quello che amaramente unisce la città è il rumore continuo degli mk, i droni israeliani di riconoscimento che giorno e notte sorvolano i cieli di Beirut e sono un trapano nella parete della mente, dell’attenzione, della concentrazione, un perpetuo monito che la guerra, la minaccia, la morte sono sopra le teste di tutti.
Le notizie dal sud e dall’est sono simili da giorni: l’aviazione israeliana bombarda incessantemente e uccide. Nelle ultime settimane Baalbek, a est, nella valle della Bekaa, e Tiro, a sud sul Mediterraneo, sono intensamente sotto attacco. Si teme anche per le preziosissime rovine romane – i missili israeliani si sono avvicinati di pochissimi metri al complesso di Baalbek – che hanno contribuito a rendere le due città patrimonio dell’Unesco. Ieri sera due palazzi sono stati abbattuti nella centralissima Rue Hiram a Tiro. Il numero dei morti, ancora non estratti dalle macerie, è molto elevato, prevedono i soccorritori. Finora sono 3.117 i decessi accertati dal ministero della salute libanese sono e i feriti 13.888.
CONTINUANO anche gli sconfinamenti nella Linea Blu, la zona (in teoria) cuscinetto che separa Libano e Israele: «La distruzione deliberata e diretta da parte dell’esercito israeliano di proprietà chiaramente identificabile di Unifil è una violazione fragrante della legge internazionale e della risoluzione 1701», si legge nel comunicato pubblicato ieri, dopo che due bulldozer e un carro armato israeliano hanno sfondato la rete di protezione e buttato giù delle strutture in cemento a Ras Naqora, sud di Tiro, sul mare.
Giovedì cinque caschi blu appena arrivati in Libano, parte di un convoglio che da Beirut si dirigeva verso la Linea Blu, sono stati leggermente feriti all’altezza di Saida quando un missile israeliano è stato lanciato a pochi metri dai blindati in movimento. L’impressione che questa guerra non sia più così veloce si è ormai trasformata in una certezza. E nessuno in Libano è in grado di dire quali siano gli obiettivi di Israele e quando tutto questo finirà.
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