È una sorta di pellegrinaggio slavo, per rubare il titolo a un lontano incontro fra Jerzy Grotowski e Anatolji Vasil’ev, l’edizione di quest’anno del festival Polis che si è concluso nei giorni scorsi a Ravenna. Un focus su un oriente, quello dei paesi balcanici, che sta in realtà alle nostre porte. Dove, malgrado gli anni già passati, è ancora viva la memoria delle guerre che hanno sconvolto il paesaggio umano (oltre che politico) della ex Jugoslavia. Illuminando per la sua parte un’altra guerra in atto, nel millenario scontro fra oriente e occidente. Non è un caso che al Nemico sia intitolato il lavoro che il collettivo francese ZONE-poème ha composto attraversando i Balcani o che il tema del traditore sia al centro dello spettacolo feroce e derisorio che del regista bosniaco-croato Oliver Frljic. Così come non sorprende più, dopo un po’, che le origini etniche siano il primo elemento qualificativo degli artisti.
Kosovaro è Jeton Neziraj che nello stile di un nostalgico «terzo teatro» ha allestito la scombinata vicenda di una drag queen volata a Londra. Bosniaco è Branko Simic, autore di un’installazione performativa che mette letteralmente al centro dell’angusto spazio scenico la statua rotante e rivestita di specchietti del Minatore di Husino, eroe armato di lotte operaie di un secolo fa calato in mezzo a musica disco e luci strobo a interrogarsi su dove sono finite le rivoluzioni d’antan. E le origini familiari sono l’oggetto del monologo del giovane italo-albanese Klaus Martini che proietta nel Friuli della madre di Pasolini il paese di sua madre.

La redazione consiglia:
Jeton Neziraj e il Kosovo in scenaTOCCA ai padroni di casa di ErosAntEros, ovvero Davide Sacco e Agata Tomsic, lui regista, lei attrice e drammaturga, allargare lo sguardo ad altre rivoluzioni e altri orienti, con la versione scenica della graphic novel che Gianluca Costantini ha tratto dalle cronache giornalistiche di Francesca Mannocchi dalla Libia. Sono in tre sul palco, Tomsic e Younes El Bouzari e al centro la chitarra di Bruno Dorella che diventa anche strumento percussivo a ritmare le immagini che si animano sul grande schermo alle loro spalle. In una serie di capitoli che, da Gheddafi alle milizie armate di oggi, costruiscono una vera e propria contro-storia del paese vista con gli occhi dei suoi abitanti. Ah, se la guerra in Ucraina ce la raccontassero così.
Ma si diceva dello spettacolo che Oliver Frljic, oggi direttore associato al Gorki Theater di Berlino, ha intitolato Dannato sia il traditore della patria sua! Atroce maledizione presa da un verso dell’inno nazionale. L’inizio è memorabile, con gli attori stesi a terra abbracciati ai loro strumenti musicali fra due donne che siedono una di fronte all’altra. Lentamente, così distesi, cominciano a suonare e la loro musica zingara li riporta in vita. Come fosse una classe morta di Kantor vista con gli occhi di Emir Kusturica. E sono le musiche patriottiche a fare da guida fra gli stereotipi dell’identità nazionale, dov’eri quando è morto il Maresciallo Tito, gli insulti al pubblico di fottuti italiani, gli stupri e le esecuzioni che accumulano corpi sulla scena. Se la storia che ci sta alle spalle è un orrore, è bene non abbassare lo sguardo.