Mentre si chiudeva la quinta edizione dello show case del teatro kosovaro tenutosi a fine anno a Pristina, già arrivavano le voci delle dimissioni dagli incarichi pubblici della minoranza serba a Mitrovica, refrattaria all’ imposizione delle targhe kossovare sulle loro auto. Situazione diventata poi incandescente con le barricate, gli scontri, gli arresti sino allo schieramento dell’esercito serbo alle frontiere nelle ultime settimane. Coincidenze singolari perché qui più che altrove, i percorsi artistici, i processi produttivi e gli eventi sono organicamente sostenuti da una capacità invidiabile di analisi e di pensiero sul rapporto fra arte e società, in cui l’orizzonte e la dimensione del contemporaneo si sostanzia non solo di sensibilità e di innovazione estetica ma soprattutto di forte percezione e sintonizzazione con i movimenti tellurici che scuotono in questa fase storica le società e la politica, sia in Kosovo che a livello planetario globale. Lo show case è stato promosso da Qendra Multimedia, certamente la realtà culturale e artistica più attiva e più creativa del Kosovo, definitivamente proiettata nello scenario europeo e internazionale.

Con il suo direttore e regista Jeton Neziraj e uno staff di giovani iper motivati e instancabili Qendra ha costruito un percorso articolato di spettacoli, workshop, concerti e dj set, incontri e riflessioni che nulla ha da invidiare a festival europei e internazionali con alle spalle una più lunga tradizione e una più ampia visibilità. A Pristina emergeva una forte e peculiare identità nella capacità di collegare fra loro pratiche e teoria, teatro e attivismo, collocando le esperienze e le ricerche in una visione di cambiamento radicale dell’esistente e in una prospettiva di internazionalizzazione e di rafforzamento delle connessioni e delle reti, chiamando a discutere per interessantissimi panel artisti, operatori, critici, studiosi e ricercatori provenienti da Inghilterra (Natasha Tripney, Mischa Twitchin, Sara Grochala, Sara Hehir), Germania (Tom Mustroph), Serbia (Borisav Matic, Mirela Gracanac), Usa (Steven Leigh Morris), Polonia (Jakub Skrzywanek), Italia (Agata Tomsic), Albania (Elsa Demo, Oriada Dajko, Adrian Zalla), Slovenia (Lea Kukovicic), Israele (Roy Horovitz), Austria (Klaus Karlbauer), Kosovo (Adrian Morina, Agnesa Mehanolli, Latif Mustafa, Bora Shpuza Kasapolli, Alma Kocaj), Macedonia del Nord (Elena Prendzova). Tanti gli spazi teatrali e non teatrali attraversati, il Kino Armata, il Dodona Theatre, l’Oda Theatre, il Museo del Carcere, il Museo Nazionale a Pristina ma anche il City Theatre di Gjlian e quello di Ferizaj.

Giornate dense di interrogativi che portavano l’interesse dei partecipanti oltre le emergenze seppure drammatiche dell’Ukraina, del Kosovo e dell’Iran, oltre la curiosità passeggera verso il teatro e le drammaturgie di questi Paesi, come pure ‘oltre il nostro cortile’, oltre il mainstream esotico, neocolonialista e ‘da safari’ che vede sempre e solo arretratezza, primitivismo, povertà di stile fuori dai propri confini. Che tipo di teatro si fa oggi in Europa? Come il teatro può combattere nazionalismo, autoritarismo, xenofobia, razzismo, populismo se non intensificando la mobilità degli artisti? Da qui la necessità di guardare allo scambio e alla cooperazione non solo in termini artistici, ma come ‘atto politico, atto di resistenza essenziale’, come affermazione di valori diversi da quelli del mercato.

Da questa necessità muovevano la maggior parte degli spettacoli visti durante lo show case, in primis quelli scritti da Jeton Neziraj, Father and Father, The sworn virgin e The Handke project che ha debuttato la scorsa estate al Mittelfest di Cividale del Friuli (Gianfranco Capitta, il manifesto del 26 luglio 2022) ma anche con Husino’s miner di Branko Simic prodotto da JU Muzej Istocne Bosne dalla Bosnia Herzegovina e dal Festival Kampnagel di Amburgo. Nella piccola sala ottomana del Museo Etnologico che esponeva anche foto bellissime di Pietro Marubi provenienti dal Museo della Fotografia di Scutari, Father and Father portava in scena inattesi traumi psichici e sociali all’interno di una famiglia come conseguenza della guerra. Traumi simili a quelli che la transizione verso il capitalismo porta con sé, come l’emigrazione della manodopera giovanile verso i Paesi occidentali: in Husino’s miner c’è il monumento del minatore che solleva in alto il fucile nella piazza di Husin in Bosnia come simbolo della lotta per l’emancipazione dei lavoratori e c’è una palla da discoteca specchiante e roteante simbolo del passaggio verso nuovi valori come ottimismo e benessere. E poi The sworn virgin, che lega le tematiche gender alle donne albanesi che in passato decidevano di vivere come maschi e ancora Stiffler di Doruntina Basha sulle violenze subite dalle prostitute.

Dopo il debutto al Mittelfest, The Handke project ha già macinato chilometri e chilometri di strada, viaggiando da Firenze a Skopje, da Belgrado a Dortmund. Quel ‘fuck you Peter Handke, fuck you Milosevic’ urlato dagli attori alla fine dello spettacolo risuona a lungo come un martello nella testa degli spettatori, rompendo la spessa cortina di ipocrisia, di indifferenza e di violenza che non solo il potere ma anche l’arte e la cultura spesso frappongono tra la vita vera e la rappresentazione o la narrazione falsata e illusoria che se ne fa. C’è su ogni cosa tanto coraggio, c’è una precisa scelta di campo, ci sono solidi valori culturali che fanno dello show case del teatro kosovaro una piattaforma e un manifesto per orientarsi tra le sfide del futuro.
Poniamo alcune domande al regista Jeton Neziraj sul suo lavoro e sulla scena culturale del suo paese.

Quali sono le criticità del sistema culturale e teatrale kosovaro?
Una delle principali sfide della scena culturale in Kosovo è la mancanza di spazi fisici. Molti edifici pubblici inutilizzati vengono solitamente affittati da società commerciali o dati a istituzioni mediatiche filogovernative. Oggi, c’è solo uno spazio teatrale indipendente in tutto il paese. Anche il sistema dei finanziamenti è piuttosto confuso e controllato dai partiti politici al potere. Dal punto di vista legislativo, c’è un enorme pasticcio tra leggi e regolamenti che «consentono» e «sanzionano» allo stesso tempo, producendo così più confusione e limitazioni che ordine. Tuttavia, negli ultimi due anni sono stati compiuti progressi visibili. Quest’anno c’è stato un aumento significativo del budget per la scena culturale indipendente.

Quanto il teatro che fate incrocia i bisogni dei cittadini e della comunità?
Il teatro che facciamo cura ed emancipa nello stesso tempo. Le nostre produzioni teatrali mirano a liberare il pubblico dai traumi del passato e dalle paure del presente. Cerchiamo di «esercitare» la democrazia sulla scena e mostriamo al pubblico il bisogno di più libertà, di più diritti e uguaglianza sociale. Le nostre comunità traumatizzate dalla guerra hanno il diritto di cercare e combattere per la normalità. Così poco, si potrebbe dire? Pretendere la normalità non è poco se vivi, diciamola simbolicamente, in un campo minato e se devi camminare non solo sulle mine degli anni ’90, ma anche tra quelle nuove, che ci vengono piazzate alle spalle da politici frustrati, potentati clandestini, nazionalisti, estremisti religiosi e altri sciacalli di quel tipo. E sì, proteggere l’indipendenza creativa qui è sempre una sfida.

Perché hai voluto realizzare il progetto «Handke»? Ci sono state reazioni politiche alla tua performance?
Non eravamo interessati a Peter Handke (come individuo) ma piuttosto al fenomeno Peter Handke, che è un esempio lampante dell’ipocrisia europea che presenta il fascismo come «libertà di oppressione» e persino lo premia. Peter Handke è il prodotto del periodo non molto glorioso che stiamo vivendo in Europa. Ci sono state dure reazioni politiche allo spettacolo in Serbia: dopo la nostra esibizione al Bitef Theatar a Belgrado, c’è stata una sorta di caccia alle streghe da parte dei media filogovernativi e dei ‘Seymens’, si chiamavano così al tempo dell’impero ottomano gli intellettuali e giornalisti asserviti al potere. Quello che abbiamo cercato di affermare è che la Serbia ha bisogno di passare attraverso un processo di de-handkeization e questa nostra tesi è stata come versare benzina sul fuoco. Certo ce l’aspettavamo da una Serbia come quella attuale che è ancora governata da un progetto egemonico e da una classe politica che non sono diversi da quelli degli anni ’90, da coloro che avevano orchestrato e organizzato progetti di genocidio in Bosnia-Erzegovina e in Kosovo.

C’è qualche drammaturgo o regista europeo con cui senti più affinità?
Per quanto posso, seguo il lavoro di Milo Rau o di Oliver Frljic.