«Condivido in pieno l’appello del manifesto, da tempo denuncio l’avanzata delle destre in Europa. Ho sempre detto che bisogna celebrare i valori della Liberazione ma quest’anno ancora di più». Luciano Canfora, professore di Filologia greca e latina all’Università di Bari, la città dove è nato e lavora e in questi giorni su tutti i giornali per le inchieste giudiziarie che riguardano il centrosinistra: «Non sono mai stato vigile sulla politica cittadina ed è un difetto, ho partecipato attivamente quando c’erano partiti con degli obiettivi, cercando di evitare il suicidio del Pci, ma le beghe legali dei tempi vicini mi hanno sempre respinto. Tuttavia non mi ha colto di sorpresa la recrudescenza del mercato politico».

È un’espressione forte.
È un termine mostruoso ma rende bene un fenomeno che nel 1983 Norberto Bobbio descrisse con raccapriccio: «Se il mercato ha vinto in modo planetario allora anche la politica è entrata dentro il meccanismo del mercato». Colse un fenomeno tremendo di cui siamo partecipi perché ci adeguiamo a un odioso sistema statunitense in base al quale per diventare senatore bisogna mettere in campo svariati milioni. Da noi c’è stata un’imitazione provinciale ma comunque la ricchezza è strettamente connessa alla capacità di emergere nella politica. Tutto ciò deriva dal declino dei partiti italiani che sono diventati larve e di conseguenza affarismo, personalismo, compravendita dei voti sono diventati pratiche di successo.

Può avere influito la decisione di togliere il finanziamento pubblico ai partiti?
Sono sempre stato un sostenitore tenace del finanziamento pubblico, l’unica maniera per rendere ipso facto illegale il finanziamento sottobanco. Ma questa è stata più che altro una conseguenza di quel flagello della politica che è stato Pannella. Un qualunquista al cubo, la parola sprezzante «partitocrazia» la dobbiamo a lui, anche se ora è in corso la santificazione, ma pazienza: il calendario è pieno di santi discutibili

Sta succedendo anche con Berlusconi, a meno di un anno dal suo funerale.
Ho letto che l’hanno messo nel santuario laico dei milanesi importanti, gli stanno dedicando un francobollo e una serie agiografica: è assurdo. Dopo la morte di Nerone cominciarono a esaltarlo e addirittura a profetizzare un suo ritorno. Nel Rinascimento ci sono stati umanisti buontemponi che si sono inventati la «Laus Neronis». La Laus Berlusconis non mi stupisce.

Il 25 aprile di 30 anni fa in piazza a Milano ci fu una manifestazione grandiosa in reazione al primo governo Berlusconi. Si parlava, come oggi, di occupazione della Rai.
Siamo in una fase molto critica della storia italiana. Il fenomeno Rai è un caso particolare di un più generale meccanismo al cui centro c’è il tentativo di destrutturare la Costituzione, che sta subendo un attacco particolarmente insidioso.

Non era prevedibile che un governo di destra ci mettesse mano?
Sì ma questo è accaduto grazie all’insipienza del Pd di Enrico Letta che ha fatto in modo che si andasse ai seggi in ordine sparso e con una legge elettorale demenziale. Così una maggioranza straripante e molto allarmante ha potuto dare l’assalto all’impianto di questa bella Costituzione.

Si riferisce al presidenzialismo?
In Parlamento questa roba passerà, dato lo scambio con l’autonomia differenziata, e non sono affatto sicuro che il referendum darà un’indicazione diversa perché l’argomento seduttivo, molto banale, che il popolo elegge il suo capo fa breccia in un elettorato poco preparato.

Come si è arrivati a questo punto?
Il dissolvimento dell’impianto della repubblica parlamentare era uno degli obiettivi della P2 ma c’è sempre stato qualche scontento del nostro sistema, che voleva modelli simili agli Stati Uniti o alla Francia, dimenticando che la V Repubblica francese è nata dal colpo di stato di Algeri nel maggio 1958. Quanto alla nostra cosiddetta sinistra, che non vuole più chiamarsi così, ricordo che la riforma del titolo V è avvenuta con governi a tradizione centrosinistra e che Bonaccini si era detto favorevole all’autonomia differenziata.

Il governo Meloni sembra avere un problema con il dissenso e lei lo sa, dato che è stato querelato dalla premier.
È l’epoca delle querele. Il deputato Pozzolo ne ha fatte 70 ma è Renzi l’archetipo di questa maniera di procedere. Ne Le Vespe Aristofane prende in giro la mania degli ateniesi di colpire in tribunale i loro avversari ma quella è una commedia molto divertente, ora il ricorso continuo a questo tipo di strumento è imbarazzante e allarmante al tempo stesso.

Libération ha lanciato un appello in sua difesa con centinaia di firme del mondo accademico, si denuncia la deriva orbaniana del governo Meloni. Ha timore?
No, come si dice, «c’è un giudice a Berlino». Mi preoccupa però questa tendenza alla censura. Ci sono aspetti più specifici, come le singole persone che vengono prese di mira sulla stampa o l’abitudine di tappare la bocca con metodi giudiziari, e quelli generali.

Quali ad esempio?
Nella scuola sta circolando un vecchio slogan: «Non si fa politica». È un modo per censurare le legittime critiche dei giovani e peraltro è senza senso perché si fa politica nel momento stesso in cui ci si esprime in quel modo. Ma per questi signori un professore che spiega il 25 aprile è uno che fa politica e questo la dice lunga su cosa intendono quando parlano delle vicende storiche, della libertà di parola e di insegnamento, principio sacro.

Anche delle guerre non si può più discutere.
I meccanismi censori e repressivi scattano sempre in presenza di conflitti, per ora sotto forma di rampogne continue e con alcuni giornali che attivano liste contro determinati bersagli. Il rituale del «giuramento anti putiniano» che ci viene richiesto può far sorridere e invece dovrebbe inquietare perché nasce dalla percezione, non infondata, che siamo già in guerra. Anche se non l’abbiamo dichiarata, perché in questo secolo le procedure sono diverse, siamo coinvolti attraverso le forniture di armi e non è meno deplorevole. Ammiro il lessico studiatissimo dei tg, la fatica che devono fare per riuscire a mettere sempre in ombra chi è che sta ammazzando i palestinesi. Anche il bravo e sempre meno rispettato pontefice, che usa sempre l’espressione «martoriata Ucraina» per dire che la prima vittima è il popolo ucraino e che la guerra poteva finire prima, è stato retrocesso alla 20esima pagina.

Non sembra che questi allarmi siano stati recepiti, non ci sono state manifestazioni di massa, per questo anche l’appello del manifesto alla partecipazione.
Mancano i partiti che erano, nel bene e nel male, un luogo di formazione collettiva, di solidarietà. Togliatti diceva «sono la democrazia che si organizza». Ora l’individuo, con la precarietà e lo smart working, è una monade isolata, scettico verso la politica, convinto che manifestare non serva. Nell’isolamento totale non si è in grado di reagire.

La nota frase di Gramsci «istruitevi, agitatevi, organizzatevi» non è più valida?
È una valutazione pessimistica, anche se ben fondata. Ma, salvo una guerra atomica, la partita non è mai persa. Ho il ferreo convincimento che si trova sempre all’interno del conflitto sociale, che è inevitabile, una risorsa e un modo nuovo di organizzarsi. Il socialismo, che sembrava sconfitto dopo la guerra fredda, ripartirà. Magari in altre forme, con altri punti di riferimento, ma non può non esserci.