Renzi sente odore di elezioni anticipate e se ad azzardare la profezia fosse chiunque altro tutti la prenderebbero a ridere. Nel caso specifico però il ricordo delle ironie con le quali fu accolto il suo benservito a Conte alla fine del 2020, ma anche la precisione con la quale appena pochi mesi fa aveva indicato nelle elezioni europee il grosso inciampo del governo, suggeriscono prudenza. In quel momento il governo appariva solidissimo e destinato casomai a rafforzarsi dopo il 9 giugno. I fatti hanno dato ragione al profeta di Rignano e si capisce perché di risate come nel 2020 non se ne sentano. Il vaticinio sembra lo stesso poco realistico. La palla di vetro pare piuttosto adoperata per giustificare e supportare la sterzata che ha reso da un secondo all’altro don Matteo il più unitario e il più schleiniano del bigoncio.

NON CHE DI MOTIVI di tensione nella maggioranza, dopo la mazzata europea, ce ne siano pochi. Al contrario sono tanti da riempire un dizionario. Basti dire che la pace sulle carceri è stata appena raggiunta, con la resa di Fi, e già il leader azzurro Tajani, probabilmente rinfrancato dalle parole di Mattarella sul tema, annuncia nuove iniziative a braccetto con i Radicali: lui e Maurizio Turco le annunceranno insieme in conferenza stampa fra tre giorni. Nessuno di questi nodi sembra però tale da spingere Lega e Fi al suicidio provocando la crisi. A premere il pulsante fine-di-mondo potrebbe essere solo la premier, per dare una lezione ai soci e rimetterli in riga. Ma il rischio di vedere invece la fine della destra al governo è troppo alto e lo sanno tutti.

LE POSSIBILITÀ DI CRISI, nella situazione data, sono in realtà solo due: le riforme e il bilancio. La marcia delle riforme è stentata. Meloni ha rallentato sul premierato e la frenata è tanto imprevista da rivelare quanta poca fretta ha di arrivare all’ordalia referendaria. Intanto però in ballo c’è già l’autonomia con il referendum che incombe: ieri è stata attivata la raccolta delle firme su piattaforma digitale e il fronte referendario esulta anche se le firme sono una cosa e il quorum tutt’altra.

Il fuoco che preoccupa la governante è quello amico. Ieri il governatore forzista della Calabria Occhiuto è tornato alla carica: «Le risorse per garantire i Lep a tutti non ci sono, quindi approvare la legge poteva forse essere evitato. Auspico una moratoria: il governo eviti di approvare delle intese con le Regioni anche sulle materie non Lep». Calderoli, papà dell’autonomia, ha fissato per oggi un’informativa in consiglio dei ministri. Si limiterà a informare su quali Regioni hanno già chiesto l’autonomia sulle materie non Lep e avanti tutta. Ma il problema c’è. L’impopolarità della riforma in oltre mezza Italia giganteggia e potrebbe riverberare sullo stesso premierato, minacciato anche dalla sempre meno velata posizione critica del presidente nei confronti del governo. La paura principale della premier è che al momento buono, quello delle urne, facciano mancare il loro pieno appoggio anche gli alleati. Mediaset, per esempio, intenderebbe sì dare una mano, però schierando solo Rete 4 e non è proprio la portaerei. Il premierato, in fondo, obbligherebbe per primi alla sottomissione proprio gli alleati del premier. Il sospetto che esitino a consegnarle l’arma letale è legittimo e se a ballare fosse il premierato le possibilità di crisi diventerebbero concrete.

I SOLDI SONO una minaccia più immediata. Ieri Crippa, il vice Salvini, ha assicurato che il governo arriverà a fine legislatura «sempre che non si mettano di mezzo qualche magistrato o l’Europa con lo spread». La minaccia togata, in questo momento, non sembra all’orizzonte: i magistrati non ne avrebbero la forza. Quella europea invece più che un rischio è una certezza. I conti balleranno, le tasche del governo saranno vuote, l’austerità è un destino. E in politica non c’è niente di più destabilizzante e divisivo di una maggioranza senza un quattrino da spendere.