La deriva liberale che aprì la strada a Mussolini
Scaffale «Marcia su Roma e dintorni», a cura di Claudio Natoli, per Viella. Il volume raccoglie gli atti del simposio promosso dall’Anppia a cento anni dai fatti
Ragionare attorno al contesto ed agli eventi che portarono alla cosiddetta «marcia su Roma» anziché restringere il campo visivo alla ricerca di più o meno presenti simmetrie tra fascismo storico di ieri e neo/postfascismi di oggi (esercizio che attrae esteriormente ma allontana la comprensione dell’oggetto) può essere utile a fornire chiavi di lettura sui processi di crisi interni alle moderne società di massa.
È QUESTO UNO DEI TEMI al centro del volume Marcia su Roma e dintorni. Dalla crisi dello Stato liberale al fascismo (Viella, pp. 258, euro 24) curato da Claudio Natoli che raccoglie gli atti del convegno promosso dall’Associazione perseguitati politici italiani antifascisti (Anppia) nel 2022 a Roma in occasione del centenario dell’avvento al potere di Mussolini.
Il libro affronta nodi e questioni che se ieri segnarono il processo di ascesa del fascismo al potere oggi segnalano la crisi della democrazia, chiamando in causa in primis il ruolo e la funzione (o se vogliamo la disfunzione) svolte dalle classi dirigenti e proprietarie nazionali del passato e del presente. Il testo si propone di misurarsi con il fascismo non più e non solo attraverso la «storia culturale», intesa come sua lettura per il tramite di «biografie, diari, motivazioni, percezioni soggettive di coloro che – scrive Natoli – si identificarono col movimento e col regime fascista».
IL PUNTO DIRIMENTE dell’argomentazione si colloca invece nella riflessione «sul nesso tra costruzione politico-ideologica e dimensione storica reale del regime fascista – precisa Natoli – a cominciare dall’analisi strutturale del blocco dominante e del rapporto tra fascismo e capitalismo».
Lungo questa linea di indirizzo vengono via via decostruiti falsi miti assolutori tipici della narrazione del regime ma ancora oggi in auge negli ambienti «liberali» nostrani: dalla negazione del fascismo come sistema totalitario (la stessa Hannah Arendt aveva espunto il tema dal suo celebre scritto) fino alla rappresentazione della dittatura come motrice della «modernizzazione» italiana di inizio Novecento, passando per l’eterno mito del regime bonario e l’altrettanto mai appassita postura vittimistica della società italiana chiamata a rendere conto delle profonde mutazioni regressive cui essa stessa concorse sotto la guida di Mussolini e dei suoi gerarchi.
A questi elementi Fabio Fabbri aggiunge nel suo saggio la falsa autorappresentazione del fascismo «quale diga ecumenica contro l’avvento dei Soviet e della dittatura proletaria», identificando invece lo scatenarsi della violenza squadrista non come risposta al «biennio rosso» ma come ripudio, da parte dei ceti dominanti e degli apparati di forza dello Stato liberale, della «affermazione di un potere contrattuale dei contadini, della richiesta del controllo dei ritmi di lavoro da parte degli operai: tutti principi democratici contro cui si scagliarono prima gli agrari e poi gli industriali».
In questo modo dal libro emerge il richiamo alla necessità di riesaminare la «nozione della crisi dello Stato liberale che – osserva Leonardo Rapone – implica il riferimento ad un processo, all’interazione tra molteplici fattori e soggetti che oggi è caduta in disuso».
All’interno di una crisi che porta alla fine di una fase storica dell’Italia post-unitaria, sono la Grande guerra e la convergenza tra liberalismo conservatore e nazionalismo nella conduzione del conflitto a determinare un primo decisivo (e irreversibile) indirizzo della struttura autoritaria dello Stato: dall’esautoramento del Parlamento alla repressione del dissenso; dalla discriminazione delle classi subalterne all’assimilazione del fattore militare come perno del sistema industriale.
È NELLA SUCCESSIONE crisi/guerra/crisi che matura la riformulazione in chiave autoritaria dei rapporti interni allo Stato e di quest’ultimo con e nella società del tempo. Da questo quadro d’insieme emergono «i caratteri che assunse in Italia lo stato d’eccezione – scrive Giovanna Procacci -, una condizione di alterazione democratica, transitoria negli altri Paesi occidentali e che in Italia sfociò nel fascismo». Un passaggio di assunzione di «pieni poteri» che, «giustificato» con la rotta di Caporetto, condusse l’Italia verso un nuovo e più devastante disastro.
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