Fu una manifestazione contro il fascismo, certo, con tutti gli slogan del caso, opportunamente fantasiosi, e l’immancabile Bella Ciao, però a tempo di rap e con il testo un po’ modificato: «O partigiano, portali via». Liberaci dall’incubo dei neofascisti ancora confessi in maggioranza e presto al governo, dai leghisti che si sono già presi Milano e spopolano in tutto il nord, dal partito di plastica, proprietà personale di un industriale che definirlo discusso è poco e che, meno di un mese fa, ha preso il 21% e passa dei voti. Meno di un punto sopra il Pds ma sufficiente a farne la forza politica più votata d’Italia.

Ma fu soprattutto una manifestazione contro la depressione e la rassegnazione. La prima dilagava. La seconda incombeva.

Li avevamo visti arrivare: solo che non avevamo capito quanti fossero. Ritrovarsi come terzo partito italiano, parte integrante di un Polo stravincente, il Msi, con il leader Fini che definiva senza perifrasi Benito Mussolini «il più grande statista del secolo» andava oltre l’immaginabile: era davvero il mondo capovolto e si era rovesciato quasi all’improvviso.

Noi avevamo un giornale che non avevamo mai considerato solo organo di informazione, per quanto alternativa, ma sempre visto come strumento di lotta: «un soggetto originale della politica» per Luigi Pintor, «una nave corsara» per Valentino Parlato.

Lo avevamo appena rinnovato: diverso formato, molto più agile. Il direttore Pintor e il vice Pierluigi Sullo, che se lo era inventato, non lo avevano voluto così solo per alzare la tiratura ma soprattutto per renderlo più battagliero e incisivo, più adeguato a una fase che sapevamo essere determinante per il futuro del Paese.

E dunque chi se non noi poteva convocare tutta la sinistra allo sbando, chiamarla alla riscossa, impedire che si crogiolasse nella sconfitta? «E se facessimo una manifestazione», propose il direttore. Fu organizzata in tempi record. Risposero tutti, nessuno escluso, e tutti accettarono di non provare nemmeno a metterci cappello e gagliardetto.

la copertina del manifesto del 26 aprile 1994
che Liberazione, la copertina del manifesto del 26 aprile 1994

C’ERANO I POLITICI a Milano, una fiumana: il segretario del Pds Achille Occhetto, in ritardo e scortato dai giovani leoni, va be’ micetti, sul punto di sostituirlo, D’Alema e Veltroni. C’era Bertinotti e con lui tutta Rifondazione. C’erano i cattolici. Incluso Mino Martinazzoli fresco di dimissioni da ultimo segretario della Dc e primo del Partito popolare, dopo aver rifiutato un’alleanza elettorale col Pds che avrebbe cambiato l’esito delle elezioni e la storia patria.

C’erano tutti e il giorno dopo avrebbero campeggiato loro sui giornali, pur senza aver molto da dire. Però non furono i loro i protagonisti. Furono le centinaia di migliaia di persone, 300mila secondo i giornali, probabilmente di più, che erano arrivate con i treni speciali e le colonne di pullman, oppure da soli, in macchina, o erano usciti dalle case di una Milano che al mattino sembrava desertificata dalla vacanza, dal week end e dal tempaccio ma nel pomeriggio straripava di compagni fradici e festosi.

Troppi perché le tre piazze dalle quali partivano i cortei, e tantomeno quella in cui confluivano per il comizio finale, piazza Duomo, bastassero a contenerli. Quel giorno la manifestazione non prese qualche grande piazza: prese Milano.

IL COMIZIO FINALE lo ascoltarono in pochi. Sul palco, con Arrigo Boldrini che incarnava l’Anpi, c’era Paolo Emilio Taviani. Era stato resistente davvero ma lo era poi stato anche contro «la minaccia comunista» e con metodi non proprio cristallini.

Ma quel giorno, anche se i centri sociali decisero di staccarsi dalla manifestazione principale, fu uno dei pochi momenti davvero unitari nella storia travagliata della sinistra italiana. Per alcune ore, e poi per alcune settimane e mesi, la consapevolezza di dover respingere una minaccia incombente prevalse su ogni considerazione opportunistica, su ogni paura di scontentare la parte fondamentalista dei rispettivi elettorati.

L’intuizione di Pintor, la necessità di una manifestazione non convocata né sponsorizzata da nessuna sigla, si dimostrò vincente e non solo sul piano della partecipazione oceanica.

In molti, sino a un attimo prima della partenza dei cortei, alle 14, avevano pregato perché non piovesse. Poi, con i primi goccioloni iniziati a cadere puntualissimi proprio alle 14, nemmeno fossero stati convocati apposta, continuarono a tenere le dita incrociate perché almeno non piovesse troppo. Furono delusi, l’anno andava così.

Chiedete a chiunque fosse per strada quel giorno cosa ricorda e tutti risponderanno: «Pioveva». In realtà diluviava, le riprese dall’alto mostrano un tappeto di ombrelli grande quanto tutto il centro della capitale morale e si sa, quando piove le manifestazioni stentano a decollare, il morale si abbassa, la combattività scema. Non successe. Il nubifragio non scoraggiò né smosciò. Fu una manifestazione combattiva ma non rabbiosa né esasperata.

Fu una manifestazione felice. Quella marea di persone fradice riscopriva di essere mezzo Paese, dimenticava lo scoramento che aveva preso alloggio nell’animo di tutti dopo le elezioni del 26 marzo.

VITTORIO FELTRI, uccello del malaugurio, aveva previsto il peggio: «Ci scapperà il morto». Il corteo dei centri sociali, che aveva scelto di sfilare per conto suo ed era di per sé enorme, avrebbe dovuto realizzare le funeste profezie che il principale giornalista della destra italiana già pregustava.

Non successe quasi niente: lo spezzone della Lega, che aveva deciso di aderire e sfilava in coda alla manifestazione, fu contestato ma senza calcare la mano. Qualche leghista oggi dimenticato ma allora sotto i riflettori, in particolare il futuro ministro col cravattino di cuoio Francesco Speroni, la prese comunque malissimo, chiese le dimissioni di prefetto e questore.

Umberto Bossi, 25 aprile 1994
«Le contestazioni sono normali in manifestazioni come questa. È lo spirito popolare che noi comprendiamo bene: la Lega è antifascista»

Umberto Bossi, che aveva sfilato ed era stato debitamente fischiato, lo rimise a posto: «Le contestazioni sono normali in manifestazioni come questa. È lo spirito popolare che noi comprendiamo bene: la Lega è antifascista».

Il primo governo Berlusconi, che il 25 aprile non era ancora nato e si sarebbe insediato solo il 17 maggio, iniziò a cadere quel giorno. Non si capì subito: il 13 giugno, alle europee, Fi superò il 30%, il vantaggio sul Pds si allargò sino a 11 punti percentuali. Nella nostra copertina mettemmo il disegno di una lampadina che si spegneva: «Buonanotte». Ma quella prova di vita e forza data a noi stessi sotto la pioggia non era stata vana.

In autunno ci furono le grandi manifestazioni contro la riforma delle pensioni. Furono l’omogenea prosecuzione del 25 aprile e senza quella mobilitazione Bossi non avrebbe potuto dare la spallata che in dicembre mise fine, dopo appena 7 mesi, al primo governo della destra italiana.

BERLUSCONI, SFIDUCIATO in dicembre, fu sloggiato da palazzo Chigi nel gennaio 1995.

Non ci sarebbe più rientrato se il centrosinistra, dopo aver vinto le elezioni del 1996, avesse fatto il proprio lavoro invece di cedere all’ebbrezza neoliberista e di annegare nei propri eterni giochi di potere.

Invece nel 2001 la stessa destra contro la quale il popolo del 25 aprile aveva manifestato tornò al governo.

Ma non era davvero la stessa destra. Non aveva più né l’arroganza cieca né le ambizioni smisurate e pericolosissime del 1994. Il 26 marzo aveva pensato di essere diventata padrona del Paese e per un attimo, nelle settimane seguenti a quelle traumatiche elezioni, lo avevano pensato anche gli sconfitti. Aveva creduto di poter ignorare quella metà e passa del Paese che non la aveva votata e non la voleva.

In quella esperienza fulminea, in quei 7 mesi di passione e rapido crollo, aveva imparato a proprie spese che vincere le elezioni non significa essere «unti dal Signore», come disse nell’estate del 1994 Silvio Berlusconi.

Aveva iniziato ad impararlo il 25 aprile a Milano. Forse è tempo di insegnarlo di nuovo anche alla destra di oggi.

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