Il 16 luglio 2018 il presidente Mattarella ha conferito alla città di Roma la medaglia d’oro al valor militare per la Resistenza. Il riconoscimento, giunto settantaquattro anni dopo la liberazione della capitale, è stato resto possibile grazie a un intenso lavoro di ricerca. Di questo scavo è figlio anche l’ultimo libro di Davide Conti, Roma in armi. La Resistenza nella capitale (1943-1944) (Carocci, pp. 268, euro 22). Già autore di ricerche sulla guerriglia partigiana a Roma, Conti propone i risultati della sua analisi basati sulla documentazione relativa alla Resistenza conservati principalmente presso l’Istituto romano per la storia d’Italia dal fascismo alla Resistenza e l’Archivio centrale dello Stato. Sono pagine dense di nomi, fatti e considerazioni che, attingendo in primo luogo alle relazioni partigiane, convergono nel mostrare quanto l’effettivo apporto alla lotta armata a Roma fosse stato ancora poco scandagliato.

CERTO, NON DI TUTTE le migliaia di episodi di lotta raccontate in questo genere di fonti, e nelle memorie del dopoguerra, è possibile trovare riscontro nelle fonti nazifasciste. Ma proprio qui interviene la storiografia. Come emerge, infatti, dal lavoro di Conti e anche da altri importanti studi recenti (Gabriele Ranzato, 2019), e dalle ricerche più specifiche sull’VIII zona partigiana (Sansone, Santilli, 2024), gli attacchi contro le forze di occupazione furono numerosi e contribuirono a indebolire il nemico, facendolo sentire sempre più minacciato e insicuro e costringendolo a impiegare mezzi e risorse nella repressione. Osserva l’autore: «Le temerarie azioni di guerriglia partigiana, i rastrellamenti degli ebrei e del Quadraro, le stragi delle Fosse Ardeatine, di Pietralata e della Storta, le fucilazioni di Forte Bravetta, i luoghi di tortura di via Tasso, la deportazione di oltre 2500 carabinieri non fanno di Roma “solo” una città martire, ma le restituiscono anche un carattere combattente».

Nelle tre sezioni che strutturano il libro, Conti illustra l’azione corale, e il contributo specifico, di azionisti, socialisti e comunisti alla guerriglia in tutte le parti della città. Una certa attenzione viene dedicata alle borgate che «diventano campo di battaglia, luogo di solidarietà e protezione dei partigiani». Nel contesto urbano spicca la funzione strategica dei Gap, in modo particolare di quello «centrale», il cui attivismo è ampiamente certificato anche dalle fonti di polizia. Si tratta di un punto decisivo, quello del rapporto tra centro e periferia, e su cui si misura il successo della strategia comunista nel tenere insieme i figli della borghesia con gli operai, i lavoratori dei trasporti e gli artigiani che costituiscono la maggioranza della base gappista in una città priva «di una composizione di classe fortemente definita». Si spiega anche così lo sforzo del «partito nuovo» di Togliatti di declinare in senso patriottico la guerra partigiana, rimandando al dopoguerra la questione istituzionale e cercando l’unità con le altre forze antifasciste, con i militari e gli Alleati.

DURANTE L’OCCUPAZIONE – spiega Conti -, Roma rappresenta anche un laboratorio in cui si manifestano le inevitabili tensioni tra le diverse culture politiche antifasciste: influenzandone le strategie, compattando il fronte delle sinistre rispetto alla prudenza dei democristiani, dei liberali e dei militari. Altre ricerche mostrano però come, non necessariamente, tale attitudine dei cattolici si traduca in «attendismo», quanto piuttosto nella preferenza per l’assistenza (alla popolazione, ai prigionieri, ai partigiani) e per il sabotaggio. Tuttavia, c’è un solco evidente che divide coloro che nella Resistenza vogliono realizzare una guerra di popolo e quanti intendono svolgere un’azione subordinata a Badoglio e agli Alleati, nel segno di una sorta di continuità dello Stato. Esistono poi importanti differenze tra azionisti e comunisti, che non casualmente distaccano i Gap dal resto dell’organizzazione armata di massa.

Alcune pagine interessanti, che richiamano le riflessioni di Santo Peli (2014), affrontano la questione della legittimazione della violenza partigiana e mettono in luce le difficoltà dei gappisti, proprie anche della cultura del movimento operaio, nel superare le remore morali connesse al terrorismo. Nello stesso tempo, la ricostruzione mostra come le diverse anime antifasciste hanno generato modalità talvolta molto distanti di intendere il proprio ruolo. Nasce anche da qui lo scontro interno al Cln su via Rasella, che si conclude respingendo l’intollerabile proposta del democristiano Spataro di dissociarsi dall’attacco. Si spiega, così, in questo scenario la questione della mancata insurrezione, in parte riconducibile agli arresti dell’aprile 1944, ma che chiama in causa anche «i rapporti di forza, nel contesto di un paese vinto come l’Italia, con gli Alleati», la scelta del Pci, nonché il peso politico esercitato dalla Chiesa.

LA RECENTE MESSA a disposizione dei documenti relativi al pontificato di Pio XII presso l’Archivio Apostolico Vaticano permetterà agli storici di andare maggiormente in profondità e analizzare quel complesso rapporto tra istanze pastorali e anticomunismo che ha impregnato la funzione di Defensor civitatis assunta dalla Santa Sede. Sarà poi finalmente possibile indagare quella spaccatura interna esemplificata dalle pagine di Voce Operaia, organo dei cattolici comunisti. Infine, investigare le vicende del dopoguerra e la costruzione della memoria cattolica: concorrenziale a quella delle sinistre, quando non antagonista alla Resistenza stessa, fino al punto da deformarne la storia, e generare quella «fiera della falsità» (Klinkhammer e Portelli, 2024) di cui si nutrono ancora le destre attuali.