Contro la trappola dell’economia della carità
La metà delle donne italiane non lavora. Il 22% non è autonomo. Le nostre pensioni sono più basse di 40 miliardi di euro (INPS). La destinazione dei PNRR alimenta un mercato del lavoro sessuato. E ci vorranno 131 anni per recuperare il gap globale, ammesso che sia un obiettivo.
Aumenta solo il lavoro di cura perché ammortizza (consente?) la risacca dei tagli al welfare; una forza messa a sistema già negli anni ‘20/’30 dalle teorie tayloriste dell’organizzazione industriale applicata al lavoro domestico (dal lavoro carponi al lavoro eretto); poi legalizzata dall’art. 37 della Costituzione come «essenziale funzione familiare».
Non una cortesia ma la trappola di un’economia della carità con cui il sistema patriarcale rafforza se stesso. Perché stupirci, dunque, che i rapporti di possesso siano vissuti come normalità? L’immagine femminile è un’invenzione maschile (Lonzi) forse anche per mascherare i comportamenti antisociali – omicidi, incidenti stradali mortali, evasione fiscale, etc –, al 90% agiti proprio da loro (Bersani Franceschetti, Peytavin).
Non abbiamo sputato lontano e oggi facciamo i conti con «la cicatrice lasciata dal taglio della molteplicità che avremmo potuto essere» (Preciado). Infatti, se leggiamo gli indicatori economici ponendo le giuste domande – quindi con una postura femminista – vediamo come noi donne non siamo ancora nella piena condizione di soggetto.
Tutt’altro. È così che la politica della vita quotidiana, quella fatta di relazioni tra generi, classe, razza, resta modellata dalle famiglie tradizionali, dai mercati e dagli Stati, mentre noi la rincorriamo faticosamente. Qual è il sesso dei soldi? Che libertà c’è senza autonomia economica? Però, in un inedito risolvere invece del fare (che è la cifra del lavoro delle donne), si sta costruendo una mappa delle risorse tramite Fondi, come UnaNessunaCentomila e Semia, per non rimanerci stecchite.
Non parliamo solo di erogazione dei finanziamenti ma di un autentico reddito di libertà, fatto di tempo e investimenti nostri accompagnati da una narrazione delle storie (Panarello). Ecco anche a cosa servono i soldi, un’economia femminista, a non lasciarci sopraffare da questa condizione; a sovvertire l’ordine economico sessuato e a fare anche del denaro mezzo di alfabetizzazione politica. È la solita ricchezza che va redistribuita. Certo abbattere il capitalismo è compito delle generazioni.
La conflittualità ci è amica per rifarci le nostre «unghiette eclettiche» (di citazione leniniana). E una certezza in più l’abbiamo: non c’è neutro che possa farsi cambiamento. Oltre ai dati, potremmo darci un compito, forse, un metodo per costruire il comune. L’8 marzo sottraiamoci, intanto per un giorno, alla trappola della cura-sfruttamento e decliniamola collettivamente come autodeterminazione. Lo sciopero potrebbe essere uno smottamento verso nuovi modi/mondi. E un tentativo di finanziarceli da sole i nostri sogni. (redazione@factorya.org)
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