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Per le donne «pocket money», i soldini della spesa

Per le donne «pocket money», i soldini  della spesaCreazione di Mari Roldán (da Pablo Picasso)

Economia delle disuguaglianze L’Italia è al 104° posto tra 146 paesi analizzati rispetto alle pari opportunità lavorative

Pubblicato 7 mesi faEdizione del 2 febbraio 2024

Perché dobbiamo ancora parlare di parità di opportunità tra uomini e donne? Non è un problema già risolto, in un paese che può vantare sia una premier che una segretaria del principale partito d’opposizione?

Sfortunatamente, no. In effetti, ironicamente, proprio nell’anno in cui entrambe queste posizioni di leadership venivano ricoperte da donne, il nostro paese perdeva ben 16 posizioni nella graduatoria internazionale del Global Gender Gap elaborata dal World Economic Forum, arrivando a essere 79° su un totale di 146 paesi analizzati.
Allo stesso tempo, c’è anche da dire che siamo 104° per parità di opportunità economiche tra uomini e donne. Del resto, secondo Eurostat, l’Italia è l’ultimo paese, tra quelli membri dell’Unione Europea, per tasso di occupazione femminile (con percentuali particolarmente preoccupanti nel Mezzogiorno).

E così, le donne italiane non lavorano, non guadagnano, non gestiscono il denaro. A poco vale l’adagio per cui «in casa mia, i soldi li ha sempre gestiti mia madre», perché tutti i dati ci dimostrano che le donne tradizionalmente gestiscono il cosiddetto pocket money, ovvero i soldini della spesa, ma non sono certo le protagoniste delle scelte di investimento, di acquisto delle case, di sottoscrizione dei mutui. Anzi, secondo OCSE, nel 2022, il 22% delle donne italiane è ancora in condizione di dipendenza economica. Cosa significa? Che, poiché non guadagna o non gestisce il denaro, non è in grado di far fronte in autonomia a uno shock economico inatteso (anche banale, come quando si rompe la lavastoviglie), che delega sistematicamente la gestione dei soldi al proprio partner e che non ha informazioni dettagliate circa gli impegni finanziari di lungo periodo, come mutui o piani di accumulo.

Certo, qui la prima domanda sarebbe: ma perché le donne italiane non lavorano? La risposta è semplice, almeno secondo Eurostat: non lavorano perché si prendono cura, gratis, di casa e famiglia. Secondo la ricerca European Values, nella media europea, il 39% delle donne che non risulta occupato non cerca attivamente un lavoro perché la propria giornata è già oberata dal lavoro di cura non retribuito. Per l’Italia, questo valore sale al 65%. Non è un tema nuovo: mancano le strutture per l’infanzia (in Calabria, siamo a 11 posti disponibili ogni 100 bambini nella fascia 0-2 anni), non sempre i nonni sono disponibili a sostituirsi al welfare che dovrebbe essere pubblico e gratuito, i padri non contribuiscono alle attività di cura. Secondo l’International Labour Organization, queste attività in Italia vengono svolte per il 74% del totale dalle donne.

E su questo dovremmo fare una riflessione collettiva: perché, ad esempio, mettere al mondo delle creature, se poi non si vuole passare del tempo con loro? Da un lato, c’è lo stereotipo: l’uomo che si prende cura non è maschio abbastanza. In Italia, lo chiamano mammo, per rimetterlo subito al suo posto, svirilizzandolo. Dall’altro, c’è la normativa. Quella sul congedo per la nascita prevede 5 mesi obbligatori per la maternità e solo 10 giorni per la paternità. E comunque, il 57% dei neo-padri, di fronte a un permesso retribuito al 100% comunque non lo prende e preferisce rimanere al lavoro. Non ci vorrebbe uno sforzo creativo per risolverlo: basterebbe ripensare la cura, come si è fatto in altri paesi, anche europei. In Spagna, per esempio, si è equiparato perfettamente il congedo di maternità a quello di paternità, sia obbligatorio che facoltativo. Questa sarebbe una vera rivoluzione culturale: inserire la cura nell’equazione delle vite degli uomini, per la primissima volta. E, contemporaneamente, liberare la forza lavoro femminile.

Anche se piace molto, nel nostro paese, la retorica della madre che rimane a casa per prendersi cura della famiglia con molti figli, la realtà dei fatti è diametralmente opposta, come ci rivelano i dati sull’inverno demografico. E mentre si introduce nella manovra di bilancio una misura per le madri delle famiglie numerose, si perde di vista una opportunità che i dati sui paesi ricchi ci mostra chiaramente: dove il tasso di occupazione femminile è più alto, anche il tasso di natalità è più elevato. Il passaggio è quasi banale: lavorando, a essere più ricche non sono solo le donne, ma l’intero nucleo famigliare, che quindi può permettersi economicamente la decisione di avere più di un figlio. Allo stesso tempo, cresce il Prodotto Interno Lordo e, attraverso il prelievo fiscale, le finanze dello Stato sono più floride, con un effetto collaterale positivo per l’intera collettività, che può beneficiare di maggiori o migliori servizi pubblici.

Senza contare che quello che invece avviene nel nostro paese, ovvero questa persistente marginalizzazione delle donne rispetto al lavoro e al denaro, è una perdita di efficienza anche legata al fatto che sono proprio le donne a rappresentare il migliore capitale umano del paese, almeno stando ai dati che vengono confermati ogni anno dalla ricerca di AlmaLaurea: le ragazze si laureano stabilmente prima e con voti più alti. Cosa accade, dunque? Che lo spartiacque è ancora, drammaticamente, quello della maternità, come ci dimostra anche una recente pubblicazione del Servizio Studi della Camera dei Deputati. Quando una donna, in Italia, si riproduce, la sua vita professionale ne viene duramente colpita (cosa che non accade per gli uomini). E a quello che dovrebbe essere un evento lieto fanno seguito dimissioni e part-time che raramente sono reversibili.

Cosa accade, invece, quando le donne possono lavorare e gestire il proprio denaro in autonomia? Non abbiamo molti dati aggregati, salvo quelli di Unioncamere sulle imprenditrici, che manifestano una maggiore spinta alla sostenibilità, alla valorizzazione delle persone e delle loro capacità, al senso di cura che si traduce anche in una maggiore attenzione agli orari di lavoro ed all’equilibrio tra vita privata e lavorativa. Da dove iniziare? Pare manchi (ai governi in generale e non solo a quest’ultimo) la volontà politica.
Ma potremmo iniziare noi donne: l’8 marzo, come ogni anno, viene indetto lo sciopero dal lavoro e dalla cura. E francamente, non vedo neppure un buon motivo per non aderire.

 

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