Invitata a parlare in un istituto femminile, all’ombra dei grandi college di Oxbridge/Oxford ancora in gran parte chiusi alle donne, Virginia Woolf sedendosi per la cena fissa quello che le viene offerto: «Ecco la mia minestra. Un semplice brodo. Non aveva niente che potesse stimolare la fantasia. Attraverso quel liquido trasparente, si sarebbe potuto vedere qualunque disegno ci fosse stato in fondo al piatto. Ma non c’era alcun disegno: era un piatto bianco» (V. Woolf, Una stanza tutta per sé).

Non solo il cibo non è abbastanza consistente soprattutto se paragonato a quello dove il sapere è ammesso ma manca persino quel disegno sul fondo del piatto e che le fa introdurre genialmente la domanda: «Qual è l’effetto della miseria sulla mente? – e ancora – In che cosa perdevano tempo le nostre madri? Quelle madri che non ci avevano lasciato un soldo?» Viene da chiederselo ancora oggi, demistificando una delle grandi equivalenze su cui si basa la nostra civiltà: quella fra tempo e denaro. Non è chiaro, sembra dirci Woolf, che non tutto il tempo della vita è traducibile in denaro, che esiste una sfilza di bisogni vitali che trovano risposta senza che la società si occupi di inserirli nel sistema di riconoscimento affidato all’economia? Chi si occupa di quei bisogni e perché la nostra civiltà sembra ignorarne l’esistenza?
Ponendosi questa domanda Woolf sfida una delle convenzioni più stereotipate che ci siano, quella per cui Le signore non parlano di soldi come titola Azzurra Rinaldi, compagna di questa piccola avventura cartacea, nel suo libro sui costi della disparità di genere (Fabbri 2023) .

Le economiste femministe insistono molto sulle cause oscure e sotterranee delle ingiustizie che sembrano non trovare fine nel mondo del lavoro, riuscendo anche oggi, a distanza non proprio siderale dalla conquista della parità di trattamento (in Italia il 1968, in molti Stati non ci siamo ancora) a produrre gap che non riusciamo a sanare. Il tema è o sarebbe quello di darsi valore e autorizzarsi sogni e ambizioni (pare esistere anche un dream gap), di non temere di cimentarsi anche con la misura del denaro. Esistono tabù che agiscono silenziosamente creando una serie di sentimenti diversi che rendono più o meno fluido il rapporto con il denaro, con l’averne o non averne e anche, soprattutto, con il saperlo chiedere, più profondamente con il meritarselo.

Per questo «parlare di soldi è un fatto politico», un modo per ribaltare quella tendenza tutta patriarcale a pagare meno i lavori svolti in gran parte dalle donne, spesso così essenziali da non diventare mai veri lavori . Si parla sempre di più, non a caso, di educazione finanziaria o, prendendo la cosa dal verso opposto, di violenza economica, tutti fenomeni per cui nel complicato rapporto delle donne con il denaro si anniderebbero gli effetti non solo di una lunga esclusione (abbiamo da poco festeggiato un secolo dalla fine dell’autorizzazione maritale, dopo tutto) ma di una malcelata reticenza su cui l’intero sistema fa profitto, naturalizzando diseguaglianze e discriminazioni. Saper parlare di denaro, smettere di essere così signore a riguardo, potrebbe generare, come pare stia cominciando a fare (esistano differenze generazionali percepibili rilevate dalle ricerche), cambiamenti interessanti.

Del resto, nominare è da sempre uno strumento centrale della politica femminista, quel saper mettere in parola tutti i dispositivi di potere invisibilizzati come naturali ma anche i desideri non ammessi. Quando negli anni Settanta le donne dei collettivi femministi chiedevano un salario per, o meglio contro, il lavoro domestico nominavano una forma di sfruttamento che persino i più radicali movimenti operaisti non riconoscevano e lasciavano a lato delle lotte, rendendo evidente quella terra di mezzo fra l’economia e i sentimenti, tra la finanza e la spesa di sé diventata dominante nel nostro sistema che, di crisi in crisi, chiede a tutti, uomini e donne, di rimodellare i confini tra vita e lavoro, senza poter contare su un’adeguata contropartita in denaro.

Per questo è così centrale lo sciopero del lavoro e della cura a cui siamo chiamate ogni 8 marzo per nominare questo intreccio come punto cieco del discorso economico e politico, quello che la società continua a rimuovere o ad assegnarlo come irrisolto alle donne e, fra le donne, a quelle che più di altre non sono in condizione di fare altrimenti, assumendosi carichi insostenibili.

Allora ritornando alle domande di Woolf, forse resta interessante occuparci di quelle «perdite di tempo» per esigere riconoscimento, forme di restituzione in denaro e servizi, per andare a leggere nella realtà cosa ha prodotto quel lungo mancare ma anche contraddire le astrazioni dell’economia. Fuori dall’equivalenza tra tempo e denaro troveremmo infatti anche le strategie di sottrazione e di reinvenzione di cui spesso proprio le donne sono autrici, zone di consapevolezza in cui l’amore non si consegna all’autosfruttamento o all’insensata spesa di sé, ma spinge verso percorsi in cui il desiderio di fare schiva l’idea di prestazione, legandosi a forme di socialità e di produttività sostenibili e, ancora di più, vivibili. Il denaro potrebbe tornare così a essere, misura di scambio, di redistribuzione, di giustizia.