La “narrazione” dell’economia 2021-2022 che viene proposta è imperniata sulla guerra Russia-Ucraina. Se solo… non ci fosse la guerra non vi sarebbero né inflazione né rischi di recessione. Falso.

Inflazione e rischi di recessione erano già in atto in Occidente ben prima della invasione dell’Ucraina, avvenuta a fine febbraio del 2022. I fenomeni traggono origine dalla politica di bilancio e dalla politica monetaria degli Stati Uniti. Una responsabilità grave ricade sull’amministrazione Biden e sulla Fed, la banca centrale degli Usa. A quest’ultima si è accodata la Banca Centrale Europea.

Il rimbalzo dalla recessione provocata dalla pandemia era molto rapido già nello scorcio del 2020, in particolare negli Stati Uniti, dove l’Amministrazione Trump aveva già deciso 900 miliardi di dollari (4% del Pil) di spesa pubblica. Il reddito delle famiglie era in forte aumento e con esso i consumi. Nel 2021 la disoccupazione è stata in rapido calo verso il pieno impiego, raggiunto a fine anno. L’anno si sarebbe chiuso con una esplosione del Pil americano del 5,7% e con un deficit verso l’estero di 800 miliardi di dollari, un record persino per la bilancia dei pagamenti correnti del Paese, da mezzo secolo passiva.

In una economia già avviata al surriscaldamento, Biden e il suo ministro del Tesoro, la professoressa Janet Yellen, mettevano in campo piani ulteriori di spesa pubblica di medio termine per trilioni di dollari, circa il 20% del Pil attuale. Chiunque poteva quindi prevedere che le aspettative d’inflazione e l’inflazione sarebbero divampate. Dal 2% circa all’anno degli inizi del 2021 l’aumento dei prezzi al consumo immediatamente montava, sino a toccare l’8% già nel febbraio 2022, alla vigilia del conflitto ucraino.

Una banca centrale può contrastare l’inflazione se la prevede e se aumenta i tassi dell’interesse a breve termine (o restringe la liquidità) in anticipo, seccamente, al disopra dell’inflazione temuta, senza generare incertezza. Pone così le aspettative sotto controllo. Evita che l’aumento dei tassi a breve si estenda ai tassi a lunga, con pregiudizio dell’attività economica.

La Fed non ha fatto nulla di tutto ciò. Ha annunciato e avviato un aumento dei tassi a breve solo nella primavera scorsa, quando l’inflazione era già alta. Ma l’aumento non era tale da evitare che i tassi d’interesse restassero in termini reali negativi; che l’inflazione si consolidasse; che anche per la gradualità dell’aumento l’attesa dei rialzi si estendesse ai rendimenti oltre le brevi scadenze, provocando effetti recessivi.

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Data la dimensione dell’economia americana, le spinte di domanda e le aspettative inflazionistiche contagiavano l’Europa e il resto del mondo. Le stesse quotazioni internazionali dei prodotti primari, dopo essere crollate nel 2020, lievitavano fortemente nel 2021 (del 67% il petrolio, del 27% i non energetici), anch’esse ben prima della guerra fra Russia e Ucraina.

L’area dell’euro sino al 2020 era stata per anni sull’orlo della deflazione dei prezzi. Ciò avveniva per la totale, scontata, inefficacia dell’azione della Bce – il cosiddetto quantitative easing – nel sostenere la domanda e per l’orientamento restrittivo dei governi, che invece di accrescerli tagliavano gli investimenti pubblici.

Ma sulla scia degli Stati Uniti anche in Europa dagli inizi del 2021 si registrava un aumento dei prezzi che nel febbraio del 2022 toccava il 6%. Come negli Stati Uniti, la banca centrale – affidata all’avvocatessa Lagarde – proseguiva per oltre un anno nella politica lassista: la liquidità restava sovrabbondante e i tassi a breve bassissimi, per essere avviati all’aumento con colpevole gradualità, restando ampiamente negativi in termini reali.

La guerra e le sanzioni innalzano i costi di alcune produzioni e più in generale infliggono all’economia mondiale una contrazione dell’offerta aggregata di beni e servizi. Lo shock d’offerta riduce le quantità prodotte e determina un rialzo una tantum del livello dei prezzi. Data l’elasticità ai prezzi della domanda aggregata il primo effetto, sulle quantità, è maggiore del secondo, sui prezzi. Aggiunge probabilità alla recessione internazionale che alcuni temono anche a causa del rialzo dei tassi a lunga scadenza cui ha dato avvio l’agire delle banche centrali. Di fronte a un quadro di stagflation, che fare?

Stabilizzare sia i prezzi sia l’attività produttiva configura un caso di contrasto stridente fra obbiettivi. Occorrono entrambi gli strumenti: una politica fiscale di sostegno alla domanda e una politica monetaria antiinflazionistica. Nel bilancio pubblico le spese correnti tendenzialmente non devono eccedere le entrate correnti, al fine di evitare la crescita ulteriore del debito. Vanno al tempo stesso effettuati investimenti pubblici in valide infrastrutture, commisurati all’esigenza di assicurare la piena occupazione e l’intero utilizzo della capacità produttiva disponibile. Gli investimenti hanno un alto moltiplicatore della domanda e possono favorire la produttività delle stesse imprese. Per entrambe le vie accrescono il reddito e il gettito fiscale al punto da autofinanziarsi nel medio periodo, senza alimentare il debito pubblico.

La politica monetaria deve orientarsi finalmente con rigore al contrasto delle aspettative d’inflazione, recuperandone il controllo. I tassi a breve vanno innalzati una volta per tutte, non lentamente, rendendoli positivi in termini reali, cioè portandoli al disopra del livello a cui si intende ridurre l’inflazione. L’eventuale effetto negativo sugli investimenti privati dovrà essere compensato dagli investimenti pubblici.

La complessità di una siffatta manovra complementare dei due strumenti è di tutta evidenza. Ma l’alternativa è fra molta inflazione e molta disoccupazione, se non entrambe. A tanto l’Occidente è stato ridotto dalla inadeguatezza del suo governo dell’economia.