Lo schema è analogo a quello del mese scorso sulle spese militari: costringere il governo e la maggioranza a discutere, distinguersi dagli alleati del Partito democratico senza spingersi fino alla rottura. Così, Giuseppe Conte esce dalla riunione del Consiglio nazionale del Movimento 5 Stelle, che ha convocato per discutere di armi all’Ucraina, e pronuncia il suo statement davanti ai giornalisti: «Il M5S si oppone all’invio di aiuti militari e a controffensive che esulino dal perimetro del legittimo esercizio del diritto di difesa di cui all’articolo 51 della Carta delle Nazioni unite», scandisce il leader dei 5 Stelle.

IL RIFERIMENTO all’Onu e al diritto internazionale non fornisce indicazioni precise su dove i grillini abbiano scelto di porre l’asticella. Il M5S, tuttavia, gioca d’anticipo: di fronte alla possibilità di un decreto a scatola chiusa, gestito dal ministero delle finanze e da quello della difesa, chiede un dibattuto in aula. «Abbiamo chiesto al premier Draghi e al ministro Guerini di riferire in parlamento in modo che ci sia piena condivisione sull’indirizzo politico e piena possibilità di conoscere gli interventi programmatici del governo», dice ancora Conte

A QUEL PUNTO, dunque, il M5S avrà la possibilità di valutare. Rifiutano le armi leggere? Pare di no. «Non ci interessa distinzione tra armi leggere e pesanti quanto la funzionalità e l’utilizzo degli armamenti – spiega – Non vogliamo spaccare la maggioranza: vogliamo dare un contributo per impedire l’escalation militare». L’obiettivo politico è che l’Italia «si muova in prima persona e giochi un ruolo da protagonista nei negoziati diplomatici, in modo che la questione Ucraina sia orientata verso una soluzione politica, equilibrata, che sia basata sul diritto internazionale». Poi ancora un messaggio di dialogo al resto della maggioranza: «Riteniamo che ci siano le condizioni perché le altre forze politiche facciano loro questa preoccupazione. Vogliamo contrastare escalation militari che potrebbero assumere proporzioni sempre più vaste e incontrollabili».

RESTA ANCORA aperto il caso di Vito Petrocelli: Conte spiega che il presidente della commissione esteri verrà fatto fuori dal gruppo al senato, grazie anche a una modifica del regolamento. Poi fa sapere di aver allertato i probiviri per espellerlo anche dal M5S. Tutto ciò però non risolve la questione della carica di presidente, che non prevede voti di sfiducia: Petrocelli dovrebbe dimettersi ma non pare affatto intenzionato a farlo.

SU QUESTO Conte rimanda alle scelte che verranno fatte insieme al resto dei partiti. In campo c’è l’idea di dimissioni collettive dall’organismo, anche se non è detto sia la strada praticabile. «Questa è una decisione che va presa con gli altri gruppi politici perché deve essere una decisione collettiva – dice Conte – Valuteremo tutte le iniziative utili per assicurare alla commissione esteri del Senato la piena funzionalità». Tuttavia tornano a farsi sentire le voci di alcuni senatori che considerano Petrocelli, al netto del tweet infelice con la Z di Putin, un presidente di commissione imparziale e meritevole. Si tratta, ad esempio, di Alberto Airola e Mauro Coltorti, che pur non mettendosi fuori dal recinto dei 5 Stelle esprimono parole di concordia per Petrocelli.

CONTE PERÒ non può permettersi ambiguità su questo terreno: proprio perché gioca sullo stretto crinale della forzatura all’interno della maggioranza il M5S deve apparire compatto e al di sopra di ogni sospetto. I sondaggi che circolano ai vertici dicono che ci sono spazi di manovra nel senso comune pacifista, non rappresentato in parlamento, ma offrono riferimenti ambivalenti: dicono che difficilmente verrebbe compresa una svolta troppo radicale di Conte, alla Melenchon. Ecco perché l’avvocato tiene aperti i canali col Pd, cura l’asse con Bersani e Speranza, che domenica scorsa al congresso di Articolo 1 gli hanno tributato una standing ovation, e mantiene l’obiettivo di un «Fronte progressista» con le forze di centrosinistra.