Dai dati raccolti nel nuovo report Dalla parte di Antigone, elaborato dall’omonima associazione che monitorata ormai da anni la condizione dei detenuti in Italia, al gennaio 2023 risultano 2.392 le donne recluse nel nostro Paese.

Le strutture detentive che accolgono esclusivamente donne – Trani, Pozzuoli, Roma e Venezia – ospitano circa un quarto (599) del totale della popolazione femminile ristretta.

Il grande numero delle recluse è ospitato, dunque, nelle sezioni femminili di carceri che a tutti gli effetti restano improntate al maschile, giocando tutto ciò a svantaggio delle necessità, dei bisogni e del percorso rieducativo delle donne. L’unico aspetto positivo di questa scelta ricade nel permettere alle ospiti di conservare i riferimenti familiari e sociali. Le realtà più popolate sono il carcere del capoluogo lombardo di Bollate, con 117 presenze, di Torino (115) e di San Vittore (79) sempre a Milano.

Per la maggior parte costituita da italiane, la media del 4% sull’intera popolazione detenuta è al di sotto di quella mondiale e in decrescita dal 2008.

Sono 70, poi, le donne trans presenti nelle carceri italiane, ospitate in sezioni apposite e protette all’interno dei penitenziari di Belluno, Como, Ivrea, Napoli, Secondigliano, Reggio Emilia e Rebibbia. A loro disposizione, scrive Antigone, ci sono attività ulteriormente limitate rispetto alla già inconsistente offerta rieducativa rivolta alle donne cisgender.

Ho partecipato alla presentazione del report nel carcere di Taranto dove è presente una sezione femminile il 17 maggio.

Al di là degli accurati approfondimenti garantiti dai professionisti che hanno stilato il documento e che con grande passione stanno portando riflessioni e proposte all’attenzione degli stessi detenuti, dei decisori, delle donne e degli uomini liberi i conseguenti risultati, due aspetti – tra i non pochi – a proposito di carcerazione al femminile nel nostro Paese mi lasciano interdetta.

Considerato l’approfondimento il passo necessario verso una comprensione più realistica e meno ideologica, ho assecondato la necessità di alcune considerazioni in proposito. Perché si può essere ristretti fisicamente ma anche tanto mentalmente, sia pur ufficialmente liberi.

Psicofarmaci a gogò: come riattualizzare la vecchia rieducazione morale

Le statistiche internazionali mostrano come, all’interno della popolazione generale, le patologie psichiche (depressione maggiore, disturbi d’ansia, disturbi alimentari) siano prevalenti ed in crescita tra le donne. Secondo il rapporto dell’Osservatorio Nazionale sull’Impiego dei Medicinali (OsMed) nel 2021 le prescrizioni di antidepressivi in Italia sono aumentate del 2,4%, orientate sempre di più verso l’universo femminile. Questo dato è confermato anche dallo Studio Espad sugli studenti di 15-16 anni – trends 1996-2015, secondo il quale rispetto agli uomini, le donne consumano maggiormente psicofarmaci su prescrizione medica e non.

La depressione in particolare costituisce la principale causa di disabilità tra le donne di età compresa tra i 15 ed i 44 anni. I tassi di prevalenza nella depressione sono da 2 a 3 volte superiori a quelli degli uomini, nei disturbi di panico le diagnosi che le donne ricevono sono in un rapporto che varia da 3 – 4:1. Il tutto già a partire dalla prima adolescenza. Le adolescenti femmine, infatti, sembrano incorrere più facilmente nel rischio di patologia, dove svettano i dati relativi ai disturbi alimentari con quasi il 90% della casistica totale. Ad oggi, e nonostante queste inopinabili evidenze, l’ottica e la medicina di genere fanno ancora fatica ad affermarsi e il contesto, già così fortemente stigmatizzante per una donna, come la struttura detentiva non sembra fare eccezione.

Specificatamente, nelle carceri italiane le donne con diagnosi psichiatriche gravi sono il 12,4% contro il 9,2% dei presenti (M/F) in tutti gli istituti visitati da Antigone nel 2022. Fanno regolarmente uso di psicofarmaci per il trattamento di disturbi psichiatrici e neurologici il 63,8% delle presenti, contro il 41,6% del totale. Vengono erogate in media nelle carceri che ospitano donne 11 ore di assistenza psichiatrica ogni 100 presenze, contro le 7 degli istituti che ospitano solo uomini.

Analogo si presenta il discorso relativo al sostegno psicologico: 22 ore alla settimana ogni 100 detenuti negli istituti dove ci sono anche donne, rispetto alle 13 di quelli dove ci sono solo uomini. Per quanto riguarda le donne, dunque e non da oggi: «il ricorso a medicine e psicofarmaci è alto, ma è in generale l’orientamento complessivo che è maggiormente caratterizzato da approcci terapeutizzanti.» (Pitch, 1987, pp. 24-5)

Ad oggi i dati raccolti dall’Organizzazione Mondiale della Sanità in merito allo stato di salute delle persone detenute in Europa fa fatica a ricavare un dato puntuale relativo all’Italia. Il nostro Paese non si avvale, infatti, di un monitoraggio di respiro nazionale e soprattutto di una metodica condivisa – a dirla tutta nemmeno di cartelle cliniche informatizzate, carenza rimarcata dagli Stati generali sull’esecuzione penale conclusi nell’aprile del 2016, dai lavori della VI Conferenza Nazionale Dipendenze di Genova del 2021 e dai tavoli degli esperti del Piano di Azione Nazionale Dipendenze 2022-2025.

Non sembra possibile, dunque, definire se e come gli psicofarmaci siano somministrati ai detenuti nelle strutture italiane, quanti di questi abbiano effettivamente una diagnosi che ne richieda l’assunzione, quanti vanno incontro a sotto o sovradosaggi.

A questa condizione va aggiunta quella del disturbo da uso di sostanza (DUS). Sono in trattamento per dipendenza patologica, infatti, il 14,9% delle donne detenute, contro il 18,7% degli uomini.

Dopo questa patologia, il disagio psichico è la seconda causa di suicidio femminile in carcere, che solo nel 2022 ha portato alla morte di cinque donne. Nell’ultimo anno, dal report redatto da Antigone, si legge che il tasso di suicidi è risultato più alto per la popolazione femminile con un 2,2 ogni 1000 persone a fronte di un 1,4 per gli uomini.  Numeri spaventosi, considerato che nella popolazione libera quel tasso è di 0,7 suicidi ogni 1000 abitanti.

Non sembra andare meglio per le donne neppure relativamente agli atti di autolesionismo registrati con un 30,8 ogni 100 presenti contro i 18,6 del totale della popolazione detenuta.

Ė ragionevole il dubbio relativo al ricorso generalizzato agli psicofarmaci come controllo e, dunque, come risposta diffusa almeno quanto impropria alla pena nel nostro Paese. La malattia psichiatrica non è il disagio psichico determinato da un contesto che estremizza ciò che esternamente al carcere riprenderebbe il suo giusto peso. L’angustia di una condizione di privazione della libertà non deve sommarsi ad ulteriori afflizioni declinate da un sistema che sembra abdicare quando non arrendersi alla funzione cui è chiamato dal dettato dell’art.27 della Carta Costituzionale. In nessun modo la cura può diventare correzione così come la correzione non può dirsi la cura. Più di frequente può farsi causa della patologia.

La chiusura degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari e l’insufficiente disponibilità di posti nelle Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza gestite dai servizi sanitari territoriali (Rems) continuano a giocare un ruolo importante a tal proposito. Peraltro, la legge 81 del 2014 ha stabilito anche l’impossibilità, per quanti si ammalano di patologie mentali all’interno di un carcere dopo la condanna, di essere trasferiti nelle Rems.

Quando tutto ciò è applicato all’universo femminile, vanno registrate ulteriori criticità.

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Ė ormai inconfutabile – o dovrebbe esserla – l’infondatezza della supposizione per la quale manifestazioni patologiche e terapie, possano considerarsi comuni per entrambi i sessi. In realtà sintomatologia, malattia, risposta al trattamento, decorso e strategie dei curanti sono influenzati dal genere. Le donne rispondono in maniera diversa rispetto all’uomo ai farmaci e questo e principalmente connesso a differenze fisiologiche, anatomiche e ormonali.

Le donne mostrano un profilo farmacocinetico differente rispetto all’uomo sia per assorbimento, sia per distribuzione, metabolismo ed eliminazione del farmaco. Hanno un peso corporeo medio inferiore una percentuale di massa grassa più alta, un minore volume plasmatico e un profilo di legame tra farmaco e proteine plasmatiche dissimile. E quindi intuibile come nello studio dei farmaci e nelle prescrizioni tutti questi parametri dovrebbero essere considerati (Franconi et al., 2007; Franconi e Campesi, 2014).

Opportunamente, già qualche anno fa il farmaco zolpidem, ipnotico non benzodiazepinico, con deboli proprietà sedative e miorilassanti, ha marcato una tappa importante nella farmacologia di genere (Farkas et al., 2013). Nel 2011 la Food and Drug Administration (FDA), infatti, ha approvato, rispetto alle precedenti formulazioni quella a basso dosaggio con dose massima consigliata distinta per genere: 1,75 mg per la donna contro i 3,5 mg.

Già nel 1998 l’OMS ha inserito la medicina di genere nell’Equity Act a conferma che il principio di equità deve essere applicato all’accesso e all’appropriatezza delle cure, considerando l’individuo nella sua specificità.

Alle componenti biologiche, però, vanno aggiunti tanti altri fattori sociali e culturali estremamente importanti e insufficientemente studiati, non necessariamente come causa ma per meglio significare l’intera condizione della donna libera o reclusa.

L’impaccio maschile e l’impunibilità femminile: la cultura che condanna è la stessa che assolve

Il processo di creazione della devianza inizia quando le norme vengono prodotte e non quando vengono violate. La devianza non è una qualità dell’azione commessa, ma piuttosto la conseguenza dell’applicazione di regole e sanzioni.

«Quando quell’estraneo è davanti a noi, può darsi che ci siano le prove che egli possiede un attributo che lo rende diverso dagli altri (…) un attributo meno desiderabile. concludendo si può arrivare a giudicarlo come una persona cattiva, o pericolosa, o debole. nella nostra mente, viene così declassato (…). crediamo naturalmente che la persona con uno stigma non sia proprio un umano. Partendo da questa permessa, pratichiamo diverse specie di discriminazione, grazie alle quali gli riduciamo, con molta efficacia, anche se spesso inconsapevolmente, le possibilità di vita» (Goffman, 1970, p.17)

Nonostante la più accentuata stigmatizzazione alle quali sono condannate le donne, le pene erogate – mediamente sette anni di carcere – risultano inferiori rispetto a quelle comminate agli uomini, e questo non solo in ragione della gravità dei reati commessi. Perlopiù si tratta di sfruttamento o di favoreggiamento della prostituzione (25,8% de casi), di truffa informatica (23,2%) – con buona probabilità riconducibile all’estorsione di denaro attraverso identità fittizia creata in rete – e di furto (20,2%).

Sembra opportuno riflettere sulla possibilità che la criminalità della donna sia solo meno apparente e, dunque, meno rilevata e approfondita anche dalla ricerca criminologica. Inoltre, sembra molto più comune per la donna una devianza tradotta in azioni autoplastiche più che alloplastiche.

Innegabile il tratto vittimogeno o del disadattamento della presenza femminile nel mondo del crimine, la donna per lungo tempo sembra volontariamente o suo malgrado essersi consegnata o, più spesso, essere stata consegnata a ruoli prevalentemente marginali, di sostegno, di copertura, di fiancheggiamento e/o di favoreggiamento.

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Alcuni studi hanno puntato a dimostrare come il ridotto numero di reati commessi dalle donne possa essere imputabile al maggior tasso di indulgenza di cui le stesse godrebbero presso le forze di polizia e la magistratura, visto il loro scarso peso in termini di pericolosità sociale. Altri, come precisato da Gulia Fabini all’interno del report, hanno correlato la scarsità di denunce, condanne, ordini di carcerazione ad una sorta di processo selettivo operato dal sistema della giustizia penale e dalla cultura di una data società, in un dato momento.

E se invece la risposta si celasse nella natura stessa dei reati statisticamente commessi più di frequente dalle donne? E se pur risultando quelle fattispecie così ricorrenti le stesse fossero in realtà ampiamente sottostimate?

La risposta potrebbe essere nel sommerso, difficilmente quantificabile soprattutto per una questione socio-culturale, perché la cultura sessista e machista che condanna la donna potrebbe essere la stessa che in alcuni casi l’assolve.

I reati di sfruttamento e favoreggiamento sembrano rispondere, nella maggior parte dei casi e ancora oggi, ad una tipologia di concessione dell’uomo di potere accompagnata dal rinnovarsi della subalternità femminile. La gestione della donna-prostituta operata da un’altra donna monda parzialmente l’uomo a capo dello sfruttamento, ponendolo su un piano più alto e meno deprecabile anche per ciò che attiene al punto di vista tradizionale del pensiero criminale. Spesso, la donna già circuita con il metodo del lover boy[1], diviene la più affidabile delle prostituenti per lo sfruttatore reale, spesso dopo periodi di prostituzione in prima persona.

La truffa informatica, vedendo la figura femminile calarsi più attivamente nella sfera sociale, economica e politica, rappresenta una nuova frontiera, più moderna sia pur profondamente carica di vecchi significati.

Nonostante cresca il numero al femminile delle vittime di love scam o romance scam, ossia la truffa amorosa sulle app di dating – nel 2022 i raggiri “romantici” sono aumentati rispetto all’anno precedente di oltre il 150% – attualmente gli uomini cadono più facilmente vittime del fenomeno delle sextortion.  Convinti da belle donne che appaiono in webcam a spogliarsi e filmarsi mentre compiono atti di autoerotismo, gli stessi sono spesso ricattati subito dopo con la minaccia di vedere pubblicate quelle immagini in rete.

Se le donne – più facilmente comprese tra i 40 e i 60 anni – fanno fatica a denunciare, vergognandosi di essere cadute vittime di queste truffe, per gli uomini è davvero così diverso o, addirittura potrebbe essere peggio? Se la fascia d’età della vittima amorosa è estendibile anche all’uomo, allora si tratta di persone con un già definito ruolo sociale, pubblico e privato.

Nonostante la macroscopica evidenza per la quale sono ancora pochi gli italiani che ammettono di utilizzare app per gli incontri online, le cifre fatturate fanno pensare ad almeno 1 su 3 (il 32.6%) (rapporto 2022 di Business of App).

Dalle app ufficiali e rinomate ai tanti sottoboschi della rete, a causa dello stereotipo di virilità declinato per assurdo con il timore di essere creduti, il dato riportato dal report di Antigone potrebbe nascondere un ben più significativo sommerso, giustificabile anche e soprattutto per via di una certa riluttanza a denunciare di essere stati vittime di una truffa, di un raggiro, di un ricatto proposto e, a questo punto, conseguito da una donna.

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Oltre alla difficoltà che hanno gli uomini nel confessare di essere vittime, il pregiudizio e le aspettative sociali nella fattispecie sembrano giocare un ruolo protettivo al femminile.

Per una volta l’espressione per la quale spesso le donne vittime di violenza – e non solo – sono chiamate alla correità, può essere percepita dagli uomini, garantendo indirettamente all’autore di reato (la donna) di farla franca.

L’uomo vittima del raggiro femminile non denuncia con facilità, tra i tanti aspetti con cui dovrebbe confrontarsi, infatti, ci sarebbe il finire oppresso dal medesimo odioso postulato del se l’è andata a cercare.

Se cambia la cultura cambia per tutti, nel frattempo – ssst! –  la donna non ha commesso ciò che l’uomo non ha denunciato.

[1] I loverboy sono per lo più giovani uomini che fingono di essere fortemente innamorati della ragazza o del ragazzo (o giovani adulti) in questione. Li adescano con complimenti e regali e iniziano molto rapidamente una relazione sessuale. Promettono alla loro vittima un futuro insieme e la allontanano sempre più dalla sua famiglia e dai suoi amici, con l’obiettivo di renderla totalmente dipendente da sé per poi sfruttarla (Fonte: https://www.act212.ch/it)