Mentre da alcune settimane i media si stanno prodigando a far circolare primi piani e corpi nudi di persone indigene Yanomami denutrite avendo cura di coprirne i volti al massimo quando si tratta di bambini, allo stesso tempo una serie di imponenti eventi culturali sembrano voler reclamare il diritto alla vita e alla bellezza dei popoli indigeni ponendosi in contrasto – o in risposta – a questo orrore.

La mostra The Yanomami Struggle, dedicata alla collaborazione e all’amicizia tra l’artista e attivista Claudia Andujar e il popolo Yanomami, ha appena aperto al The Shed di New York dando seguito a un’altra rassegna Claudia Andujar: la lotta Yanomami, allestita in Triennale a Milano (in partnership con la Fondation Cartier pour l’art contemporain) nel febbraio del 2021. L’allora tour (da Parigi a Milano, a Londra, Barcellona per poi concludersi in Svizzera) era stato segnato da continue chiusure dovute alla pandemia.

Immaginari
A Milano, l’esposizione era rimasta aperta poco più di una settimana per poi tornare visitabile solo pochi giorni prima della chiusura. La programmazione istituzionale dell’arte non aveva permesso una nuova pianificazione che potesse evitare lo spreco delle ingenti risorse impiegate negli allestimenti. Neppure quando si trattava di parlare di cosmologie indigene, sostenibilità, altre forme di vita e di intendere il tempo.

Entrambe le mostre sono state curate da Thyago Noguera, responsabile del dipartimento di fotografia dell’Istituto Moreira Salles di san Paolo. The Yanomami Struggle espone accanto alle foto di Claudia Andujar, più di 80 disegni e dipinti di artisti yanomami di diverse generazioni: André Taniki, Ehuana Yaira, Joseca Mokahesi, Orlando Naki uxima, Poraco Hiko, Sheroanawe Hakihiiwe e Vital Warasi. Saranno inoltre presenti opere video dei registi yanomami Aida Harika, Edmar Tokorino, Morzaniel Iramari e Roseane Yariana. Mentre l’intenzione è quella di aumentare la visibilità della loro lotta indigena per la protezione della loro terra, la loro gente e la loro cultura, l’apertura della mostra ha coinciso con un momento particolarmente delicato per il popolo yanomami. Le immagini che circolano in questi giorni non sono il risultato di qualcosa di sconosciuto. Da anni, la campagna Fora Garimpo Fora Covid (e una serie di relatori prodotti da diverse associazioni) denunciano la situazione disperata a cui sono sottoposti gli Yanomami in conseguenza della grande ricchezza di risorse presente nelle loro terre.
Ma il dialogo stabilito tra le fotografie di Andujar e i lavori dei giovani artisti Yanomami offre una visione senza precedenti della cultura, della società e della loro arte visiva, mettendo in luce non solo le tragedie che accompagnano le loro storie, ma anche un patrimonio di enorme bellezza e saggezza. Attraverso la voce e la guida dello sciamano e leader Davi Kopenawa, la rassegna racconta – infatti – le origini mitologiche degli Yanomami e disegna una mappa della loro cosmovisione, politica e organizzazione sociale. La mostra prevede un programma pubblico di tre incontri, dal titolo Indigenous Rights, Art and Environmental Justice, durante il quale si terranno converse con gli artisti e attivisti tradotte in inglese e yanomami. In questa storia multistrato vengono inclusi i contributi di molte persone e organizzazioni, tra cui Hutukara Associação Yanomami, Instituto Socioambiental, l’antropologo Bruce Albert e il missionario italiano Carlo Zacquini.

Sguardi femminili
Sul fronte delle produzioni audiovisuali, Thuë pihi kuuwi – Uma Mulher Pensando è il primo film diretto e girato da due donne Yanomami, Aida Harika, Roseane Yariana, con Edmar Tokorino. Narra di una donna yanomami che osserva uno sciamano preparare lo yãkoana, il cibo per gli spiriti. Basato sul racconto di una giovane donna indigena, propone un incontro di prospettive e immaginazioni, e una osservazione femminile su ruoli e rituali che spesso – no sempre – sono limitati agli uomini. Le stesse registe hanno prodotto il cortometraggio Yuri u xëatima thë – A Pesca com Timbó (10min) mentre Morzaniel Iramari ha diretto Mãri hiL’albero dei sogni (17 minuti) che vede la partecipazione di Davi Kopenawa. Lo sguardo di una giovane donna sul lavoro degli sciamani, la pratica della pesca con il timbó e la conoscenza dei sogni sono, quindi, i temi di questi tre nuovi film che inaugurano una nuova produzione audiovisiva Yanomami.

Ehuana Yaira, «Thuë a paiximu, una donna nella foresta adornata da ‘foglie di miele’», 2021, Collez. Fondation Cartier pour l’art contemporain

I/le registi/e fanno parte di un gruppo formato nel 2018 da Hutukara Associação Yanomami, con l’appoggio dell’ Instituto Socioambiental, per capacitare comunicatori e diffondere il lavoro dell’associazione tra gli Yanomami, altri popoli e tra non indigeni. L’intenzione è quella di far conoscere meglio il popolo Yanomami e le sue sapienze, espandendo così la lotta per i diritti dei popoli indigeni, ma anche promuovendo la circolazione della conoscenza ancestrale tra giovani e meno giovani per far sì che questa non si perda. Questo elemento di autopreservazione diviene fondamentale, soprattutto alla luce dell’enorme perdita di anziani durante gli anni di pandemia e di Bolsonaro, ma anche a seguito di un processo di distanziamento dei giovani dalle proprie comunità originarie.

Nella stessa direzione si pone la mostra Nhe’e Porã: Memória e Transformação curata da Daiara Tukano, artista indigena del popolo Tukano, attivista, educatrice e comunicatrice al Museu da Língua Portuguesa di São Paulo, e visitabile in versione virtuale e gratuita, da qualsiasi parte del mondo. In Brasile l’apertura della mostra segna il lancio del Decennio internazionale delle lingue indigene (2022-2032), istituito dalle Nazioni Unite (Onu) e coordinato dall’Unesco.

L’esposizione ha una logica circolare, non importa dove sia l’inizio o la fine. Attraversando l’intero spazio, il visitatore troverà un fiume di parole scritte in diverse lingue indigene, creando un flusso che collegherà le stanze in un ciclo continuo. In uno dei possibili punti di partenza della mostra, il visitatore si trova di fronte a una foresta di lingue indigene che rappresentano decine di famiglie linguistiche a cui appartengono gli idiomi parlati oggi dai popoli indigeni in Brasile – ognuno veicola modi diversi di esprimere e comprendere l’esistenza umana.

Dagli anni 2000, una nuova generazione di artisti indigeni in Brasile ha iniziato a produrre e mostrare il lavoro al di fuori del proprio territorio, stabilendo una nuova prospettiva che, oltre a intraprendere diversi cammini nel mondo dell’arte, rappresenta un invito – e un dono che ci viene fatto – a sperimentare altre visioni del mondo. Se nessuno è nudo nella foresta, spesso l’occhio occidentale continua a voler rintracciare la nudità, la miseria, la tristezza che, quasi sempre, è quell’occhio stesso a produrre.